Sono passati ottant’anni e non è ancora morto: il fascismo è oggi più vivo che mai. E non è solo Benito Mussolini, protagonista di romanzi e film come non sarebbe stato immaginabile un tempo, ma è l’ur-fascismo dell’autoritarismo illiberale che cova sotto traccia.

Il fascismo fu un regime che si instaurò con la violenza facendo leva sulla paura “rossa” della piccola e grande borghesia – ventuno anni di usurpazione dello stato, dittatura e annichilimento degli oppositori – e che portò il paese in guerra al fianco di Adolf Hitler.

Un regime che si resse grazie a un apparato sostenuto dal “ventre molle” di ceti medi, industriali e agrari e a una retorica ruralista e familista per sottomettere le masse operaie, bracciantili e contadine analfabete.

Quando le cose si misero male, il duce fu messo da parte e il re e Pietro Badoglio vollero patteggiare in segreto con il nemico, con il tedesco in casa che smantellò l’esercito italiano lasciato a sé e mise Mussolini a capo della Repubblica fantoccio di Salò. L’apparato resse e buona parte di quei ceti che erano stati conniventi rimasero dov’erano, imboscandosi come poterono.

La Resistenza

Una parte del paese, però, reagì. A migliaia militari sbandati e giovani che si diedero disertori per non combattere coi “repubblichini”, uomini e donne stanchi di soprusi e violenze andarono a formare le bande di ribelli che per diciotto mesi diedero vita alla Resistenza, contro un nemico ogni giorno più feroce.

Certo, ci furono i partiti – sopravvissuti in clandestinità, all’estero, uniti nel nome dell’antifascismo – che misero insieme il Cln e si diedero un’organizzazione militare sostenuta dagli alleati che fu parte attiva nella liberazione del paese.

Come sarebbe stata la nuova Italia se il 25 aprile 1945 a Milano non avessero marciato uniti i leader del Cln – da Luigi Longo a Ferruccio Parri a Enrico Mattei – ma vi fossero stati i generali inglesi e americani a stringere la mano all’ex maresciallo Badoglio? L’Italia repubblicana nata dalla Resistenza poté scrivere nella sua Costituzione parole di uguaglianza, libertà e progresso, perché insieme aveva combattuto una guerra che – come ci insegnò Claudio Pavone – era stata di liberazione (dai tedeschi), civile (contro il fascismo) e di classe (contro i ceti dominanti sostenitori del regime).

Il caso italiano

Il fascismo, tuttavia, non scomparve, perché in tanti che lo avevano tenuto in piedi rimasero ai loro posti. Molti si convertirono al conservatorismo democristiano; altri, i più “nostalgici”, già dal 1946 seguirono nel Movimento sociale italiano Giorgio Almirante e i reduci fascisti.

Ovunque, in Europa, il fascismo è finito con la morte dei suoi artefici. In nessun paese sono stati ammessi nostalgici per ricostituire vecchi partiti: non in Germania; non in Spagna, ove il franchismo è morto con Francisco Franco nel 1975; non in Portogallo, ove l’Estado Novo di António de Oliveira Salazar venne sepolto dalla rivoluzione dei garofani nel 1974. E neanche in Francia, dove l’eredità del maresciallo Philippe Pétain si dissolse con la vittoria degli alleati, di Charles De Gaulle e dei partigiani del “maquis” sui tedeschi.

In Italia, no. La Liberazione venne per anni relegata a celebrazione retorica, mentre i “nostalgici” allevavano turme neofasciste e la «strategia della tensione» (il Msi è arrivato nel 1972 all’8,6 per cento; nel 1992 era ancora al 5,3 per cento). I post-fascisti sono stati poi “sdoganati” da Silvio Berlusconi, grazie alla conversione del Msi in Alleanza nazionale e poi in Fratelli d’Italia, ma destra estrema è rimasta.

Ciò che colpisce, nell’estrema destra italiana di oggi, è il bisogno di riferirsi a un passato di cui ci si dovrebbe vergognare. Essa non aspira solo a un regime totalitario per i nuovi tempi, ma lo vorrebbe ancora in orbace e munito di manganello e olio di ricino. Certo, è ancora minoranza, ma ha la tracotanza di poter fare (quasi) quello che vuole e deve procedere a piccoli passi lungo la china illiberale. Ma, intanto, si sta mangiando la destra non estrema.

È al conservatorismo più autentico che dovrebbe premere di sedare le pulsioni autoritarie e ridare vigore alla democrazia, con i progressisti. Il 25 aprile dovrebbe essere la nostra festa nazionale, come il 14 luglio lo è per i francesi tutti, perché è dalla Resistenza che è nata questa Repubblica. Una festa nient’affatto divisiva ma l’unica davvero unificante che ha questo paese.

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