Una finestra di una decina di giorni, che potrebbe bastare per chiudere la partita del Consiglio d’amministrazione Rai prima delle elezioni europee. Sempre che ci sia un accordo tra i partiti sui quattro nomi da selezionare in parlamento.

Sembra una partita tecnica ma, su impulso del governo, le camere hanno deciso di anticipare di quattro giorni la pubblicazione dei bandi per l’elezione dei membri del cda inizialmente prevista per il 25 marzo. E questo apre nuovi scenari politici.

Tra la fine del periodo di presentazione delle candidature e la chiusura del parlamento in vista delle europee (verosimilmente la prima settimana di giugno) ci sono circa una decina di giorni. Evitare di scavalcare la data del voto porterebbe beneficio a quasi tutti i partiti. A puntare sul rinvio sono rimasti ormai soltanto Pd e Forza Italia, che sperano di veder aumentare i propri consensi rispetto alle ultime politiche. Anche pochi punti percentuali basterebbero per garantire uno spazio di manovra più ampio.

Ma l’accelerazione è essenziale soprattutto per la Lega, che a giugno è a rischio tracollo. Nel partito di Matteo Salvini il timore è quello di trovarsi, dopo le europee, di fronte a ulteriori pretese dei dirigenti di rito meloniano resi ancora più famelici da un risultato elettorale che si preannuncia già eccezionale per Fratelli d’Italia. Ma c’è uno scenario addirittura peggiore per i leghisti, quello in cui dovessero finire dietro FI. In quel caso, nella ridiscussione delle direzioni (a fare gola sono soprattutto Prime time, Gr e Tgr) a valle della formazione del Cda, Salvini rischierebbe grosso.

Le regole

Insomma, meglio un uovo oggi che una gallina domani. Anche perché le trattative sull’elezione dei consiglieri sono tutt’altro che una passeggiata di salute. Giorgia Meloni e il suo uomo Rai Giampaolo Rossi ne sanno qualcosa da quando, nel 2021, la strategia del centrodestra ha portato a un cda senza consiglieri di FdI, mentre Lega e Forza Italia si sono votati i loro candidati a vicenda.

Il cda ha già fatto partire la procedura per l’elezione del consigliere in quota dipendenti (dovrebbe essere confermato l’uscente Davide Di Pietro). Gli altri nomi vanno invece concordati con il ministero dell’Economia che, da azionista della Rai, indica due consiglieri, uno dei quali in funzione di amministratore delegato. L’unica cosa certa sono le regole, ma l’esito è tutto da vedere.

Sembra ormai piuttosto verosimile che Giancarlo Giorgetti indichi Rossi come ad (anche se nella Lega c’è ancora chi spinge per un ripensamento a favore dell’uscente Roberto Sergio) e, come secondo nome, uno tra Simona Agnes – quota azzurra – o Alessandro Casarin, direttore Tgr prossimo alla pensione e l’uomo che la Lega manderebbe a rappresentare i propri interessi.

In questo scenario, in parlamento la maggioranza voterebbe il nome non fatto dal Mef e un ulteriore consigliere in quota FdI: per il momento i candidati più accreditati sono il giornalista Guido Paglia e Mauro Mazza, già direttore di Rai 1. La minoranza dovrebbe votarsi vicendevolmente i nomi del consigliere quota M5s, molto probabilmente l’uscente, l’avvocato Alessandro di Majo, e quello dei dem. Una volta uscito dalla corsa Sandro Ruotolo, che secondo molti punta a una candidatura in Europa, il nome favorito appare quello di Chiara Valerio. La scrittrice piace molto a Elly Schlein, ma chi si occupa di servizio pubblico fa notare che è digiuna di Rai e rischierebbe un destino di vaso di coccio tra i vasi di ferro.

Negli ultimi giorni è stata evocata anche Rita Borioni, già consigliera in quota dem nel 2018, quando si è insediato il primo cda composto secondo le regole della riforma Renzi. Sembrano invece in discesa le quotazioni di Giovanna Melandri, che ieri è stata indicata per entrare nel cda del gruppo francese Kering.

Sulla scelta dei candidati aleggia anche un dubbio che nemmeno gli addetti ai lavori hanno ancora sciolto del tutto. Una direttiva europea prevede per le aziende quotate che il cda sia composto, almeno per il 40 per cento, da donne. Una prescrizione che il consiglio uscente rispettava, ma che non è chiaro quanto sia stringente vista la natura ibrida dell’azienda.

Se si decidesse di applicare il vincolo l’aspettativa di trovare un nome femminile ricadrebbe verosimilmente sull’area di FdI, che però per il momento non ha ancora trovato la donna giusta. Il nome di Annalisa Terranova, circolato nei giorni scorsi, non avrebbe infatti convinto del tutto i meloniani di viale Mazzini. C’è poi il nodo della presidenza, che va votata dai due terzi della commissione Vigilanza. La maggioranza attualmente dispone di 23 voti, gliene servono altri cinque: impossibile che prenda quelli del Pd, molto improbabile che – nonostante accordi del passato – il M5s appoggi una berlusconiana a pochi giorni dalle elezioni.

Se la Lega poi decidesse di sabotare l’elezione, per Agnes le cose si metterebbero male. In un eventuale secondo giro di votazioni si favoleggia già di nomi alternativi che possano essere graditi a leghisti o dem, ma siamo ai limiti della fantapolitica. Per non parlare della possibilità, sempre in ballo in mancanza di accordi preliminari, che l’elezione del o della presidente slitti al dopo voto. Con equilibri che potrebbero non essere più gli stessi.

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