Ufficialmente «è una notizia riservata», fanno sapere dal ministero delle Infrastrutture (Mit). Ma il fatto che non venga annunciata denota imbarazzo. La notizia è infatti confermata da numerose fonti: il governo e Autostrade per l’Italia (Aspi) hanno raggiunto l’accordo sulla nuova modifica del Piano economico finanziario (Pef) per i residui 18 anni della concessione autostradale, recependo (vedremo come) le osservazioni critiche dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art). Il Pef definisce la dinamica tariffaria e quindi la redditività di Aspi. È dunque l’elemento decisivo per la statale Cassa depositi e prestiti (Cdp) che, insieme ai fondi d’investimento internazionali Blackstone e Macquarie, si è impegnata a definire entro il 30 novembre il prezzo da offrire alla holding quotata Atlantia per l’acquisto dell’88 per cento delle azioni di Aspi. Il 14 luglio scorso fu scelta la vendita di Aspi a Cdp come transazione per evitare la revoca della concessione dopo il crollo del ponte Morandi.

Adesso la storia è nuovamente incagliata. Le modifiche apportate al Pef sono a dir poco omeopatiche, una vera beffa per l’opinione pubblica. Rispetto alla versione originale i ricavi da pedaggio (non attualizzati, per i tecnici) dei prossimi 18 anni sono stati tagliati dello 0,7 per cento, 27 milioni all’anno su 4 miliardi. Secondo l’Art l’aumento automatico dei pedaggi, fissato a luglio scorso all’1,75 per cento all’anno, andava abbassato allo 0,87 per cento, riducendo così i ricavi dell’8,5 per cento, cioè di almeno 300 milioni all’anno.

Con il taglio omeopatico concordato rimane sostanzialmente intatta la redditività stellare di Aspi, autorizzata a distribuire per ciascuno dei prossimi 18 anni 1,1 miliardi di dividendi, circa il 25 per cento dei ricavi, per un ammontare complessivo di cedole (21 miliardi) nettamente superiore alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria e ai nuovi investimenti. Che la finta trattativa tra Mit e Aspi non avrebbe intaccato il monte dividendi è stato autorevolmente anticipato tre settimane fa dal Sole 24 Ore e mai smentito.

Un problema politico

Si pone un problema politico complesso. All’indomani della pubblicazione del parere dell’Art, firmato dal presidente Andrea Camanzi nei suoi ultimi giorni di mandato, il governo dichiarò di voler recepire le sue indicazioni, benché il parere sia obbligatorio ma non vincolante per il governo.

Essendo in gioco un atto aggiuntivo alla concessione, cioè un contratto tra il concedente (Mit) e il concessionario (Aspi), il governo poteva approvare tale e quale il Pef concordato dai manager dei Benetton con i burocrati della ministra Paola De Micheli. Tutt’al più avrebbe dovuto motivare la decisione di infischiarsene delle indicazioni Art, focalizzate sulla redditività galattica assicurata all’azienda dei Benetton e quindi sull’alto prezzo che Atlantia avrebbe potuto pretendere per privarsene. Ma da subito il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Luigi Carbone aveva avvertito Atlantia che al parere dell’Art «occorrerà necessariamente attenersi».

All’indomani della pubblicazione del parere Art, De Micheli, disconoscendo l’accordo su quel Pef, ha ordinato al direttore generale della vigilanza autostradale del Mit, Felice Morisco, di chiedere ad Aspi di modificare il Pef, come se se lo fosse scritto da sola. La reazione di Aspi è stata, comprensibilmente, furente. L’amministratore delegato Andrea Tomasi ha scritto il 17 ottobre, tre giorni dopo la pubblicazione del parere dell’Art, una dura lettera secondo la quale il Pef, frutto di mesi di trattative, era da considerare un accordo da rispettare e non una richiesta della concessionaria, e «costituisce un unicum con l’accordo per la definizione negoziale della procedura. Qualora venisse meno quanto pattuito relativamente al Pef la scrivente si vedrà costretta ad attivare tutte le azioni a propria tutela».

La strettoia

È evidente la strettoia in cui si trova il governo. Il parere di Camanzi ha scoperchiato un gioco assurdo in cui – fingendo di fare la voce grossa con la concessionaria responsabile del crollo del Morandi e della morte dei 43 automobilisti – da una parte si è scelta una pena alternativa alla revoca della concessione, l’obbligo di vendere Aspi alla Cdp; dall’altra si è accettata la pretesa di Aspi di vedersi garantita una redditività ancora più scandalosamente alta di quella degli anni precedenti, ovviamente funzionale a spuntare da Cdp un prezzo di acquisto alto. Anche se i 9 miliardi inizialmente offerti da Cdp, Blackstone e Macquarie non sono apparsi sufficienti a soddisfare le aspettative dei grandi fondi azionisti di Atlantia, su cui i Benetton esercitano il controllo con il solo 30 per cento delle azioni. Comunque sia, quando l’Art ha mostrato a tutti l’assurdità degli accordi presi, era ormai troppo tardi per tornare indietro, visto che la crescita lineare dell’1,75 per cento all’anno dei pedaggi faceva parte dell’accordo del 14 luglio, quello presentato dal governo all’opinione pubblica come uno spietato trionfo del bene sul male.

Può essere che nessuno dei responsabili politici della vicenda (il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e De Micheli) si sia fatto spiegare dai suoi tecnici in quanti euro sonanti a carico di automobilisti e contribuenti si sarebbe tradotto quell’1,75 per cento. Oppure lo sapevano benissimo e hanno sperato che nessuno se ne accorgesse. Delle due ipotesi, una fa più orrore dell’altra. Certo è che quando Camanzi ha scoperto il gioco, al governo non è rimasto che tentare l’ultima carta: avanzare rinculando per fingersi in arretramento. Operazione resa ancora più audace dall’arresto dell’ex numero uno di Aspi e Atlantia Giovanni Castellucci (l’11 novembre scorso) e dalla diffusione delle intercettazioni che hanno chiarito a tutti quello che per anni solo pochi avevano avuto il coraggio di sostenere: tutti erano consapevoli che i manager tagliavano la manutenzione per aumentare i dividendi dei Benetton, al punto, secondo le accuse della procura di Genova, di mettere a rischio la sicurezza dei viaggiatori.

Ed ecco la capriola: si è finto di modificare il Pef per adeguarlo alle indicazioni dell’Art, lasciandolo intatto. Adesso resta l’ultimo ostacolo. Il Pef lo deve approvare il Cipe, comitato interministeriale per la programmazione economica, cioè il governo. Conte e gli altri ministri interessati dovranno mettere la faccia sui 21 miliardi di dividendi.

© Riproduzione riservata