Edilizia carceraria, soprattutto. Poi lavori socialmente utili, quindi gratuiti. Infine qualche spicciolo per le misure di reinserimento sociale, ma solo per i minorenni. Nulla, invece, è previsto per gli adulti: solo il finanziamento per lavori di manutenzione all’interno delle carceri stesse. Se la bozza delle proposte del governo italiano per i fondi del Recovery fund fosse confermata, queste sono le priorità del ministero della Giustizia per la gestione delle carceri. Le cifre per l’edilizia sono significative: 300 milioni di euro per «riqualificare il patrimonio immobiliare penitenziario», con interventi che aumentino la recettività delle carceri esistenti e la realizzazione di nuove strutture e altri 300 milioni per «migliorare la performance strutturale» degli edifici, ovvero interventi di prevenzione antisismica.

Lavoro gratis

Per i «lavori di pubblica utilità» vengono chiesti 45 milioni di euro in cinque anni. I detenuti lavorano come volontari fuori dal carcere e l’unica spesa da sostenere è quella di una assicurazione in caso di incidenti, oltre al pasto. In genere, si tratta di attività gestite in accordo coi comuni, che si fanno carico dei costi. I detenuti si occupano, in genere, di pulizia delle strade, verde pubblico e di decoro urbano: il tutto sempre sorvegliati dalla polizia penitenziaria. A oggi, però, si parla di numeri ridotti: i dati del ministero sono aggiornati al 2014 e in quell’anno e registrano poco più di 5mila detenuti, su un totale di 63mila.

Invece, il ministero sembra preferire il lavoro dei detenuti interno al carcere. La bozza prevede la richiesta di 540 milioni di euro in cinque anni per «consentire l’impegno del maggior numero possibile di manodopera detenuta nelle attività lavorative ecosostenibili per la manutenzione del fabbricato e degli ambienti». Tradotto, i detenuti lavorerebbero alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per fare raccolta differenziata, pulizia e tinteggiatura delle proprie celle e degli spazi comuni. Il lavoro verrebbe retribuito secondo un tabellario che ricalca il minimo previsto dai contratti nazionali del settore. In sostanza, la manutenzione ordinaria delle carceri verrebbe appaltata ai detenuti stessi, che sono anche i lavoratori più economici sul mercato.

Nessuna spesa sarebbe ipotizzata per il reinserimento sociale dei detenuti, con percorsi di formazione che permettano di avere una possibilità di impiego una volta scontata la pena. Ciò dovrebbe essere previsto solo per i «minorenni e giovani adulti in carico ai servizi minorili», per i quali il ministero chiederebbe 3 milioni di euro per «promuovere i valori della legalità» con «l’offerta di opportunità formative e lavorative nei campi dell’economia verde e digitale» e di altri 2,5 milioni per la «tutela del diritto allo studio». Almeno per i ragazzi, dunque, si immaginerebbe la possibilità di una vera e propria rieducazione, in vista di una vita futura fuori dalle mura degli istituti penali per i minorenni. Anche se con risorse irrisorie rispetto alle altre voci.

Il documento è ancora ufficioso e il ministero di via Arenula non ha voluto commentarlo, eppure – al netto delle cifre – le voci indicate riflettono le direttrici gestionali che hanno guidato fino a oggi le scelte del guardasigilli, Alfonso Bonafede. Le carceri italiane sono sovraffollate: i detenuti sono 61.230, a fronte di 50.931 posti disponibili. In media, lo stato confina 120 persone dove potrebbero trovare spazio 100. La situazione è più grave in alcune carceri: a Regina Coeli a Roma ci sono 1.061 detenuti in 616 posti (più di 170 persone ogni 100 posti), a Brescia 366 per 189 posti (194 persone ogni 100 posti). Per risolvere il problema, che ha mostrato le sue drammatiche proporzioni durante l’emergenza sanitaria, nel 2019 il ministero ha approvato il “piano carceri”, che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e la riconversione delle caserme dismesse, per cui erano stati stanziati 30 milioni di euro.

Le misure alternative

Ferma la necessità di intervenire sulle strutture carcerarie fatiscenti, nemmeno una parte dei fondi europei è prevista per il potenziamento delle misure alternative al carcere come chiave per ridurre il sovraffollamento e favorire la vita dopo il carcere. Eppure il sistema coinvolge circa 60mila persone – tante quanti i detenuti – ed è tarato sul grado di pericolosità sociale e sulla gravità del reato, valutato dal magistrato di sorveglianza: dagli arresti domiciliari con o senza la possibilità di lavoro; all’affidamento in prova ai servizi sociali, con l’obbligo di colloqui e l’individuazione di percorsi formativi. «L’esecuzione penale esterna al carcere favorisce il reinserimento sociale, che è più facile se il detenuto ha mantenuto un piede nella società invece che venirne completamente tagliato fuori», dice Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone. I dati lo dimostrano: secondo l’amministrazione penitenziaria, nel 2017 il 68 per cento di chi ha scontato la pena in carcere è tornato a commettere reati, contro il 19 di chi ha avuto accesso alle misure alternative. Il sistema, però, sconta la mancanza di fondi per personale che segue i detenuti. Una carenza che rischia di non venire colmata nemmeno con l’occasione del Recovery fund. Per il ministero sembra più facile costruire un carcere da zero che investire sulla funzione rieducativa della pena.

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