Una democrazia sempre meno digitale, dai partiti ai livelli istituzionali. Tanto che il Pd litiga e una consistente parte sembra preferire la rinuncia al voto online per le primarie, optando per quello tradizionale: scheda e gazebo.

La possibilità di aumentare la partecipazione con la rete perde sempre più appeal. «La democrazia è a oggi l’unica attività umana impermeabile allo sviluppo tecnologico», dice Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni e fondatore del movimento Eumans.

«Le innovazioni devono riguardare anche i partiti, a patto che non siano scelte estemporanee e di marketing elettorale e che accompagnino una reale volontà di riforma e di innovazione nelle istituzioni», aggiunge l’ex eurodeputato.

Da Rousseau a SkyVote

L’emblema di questa dinamica è il Movimento 5 stelle, forza politica trainata dal web che si poneva lo scopo di rendere Internet un posto centrale nei processi decisionali.

La storia è significativa, perché ricca di passaggi in ogni caso storici nella loro singolarità, come le quirinarie del 2015, che per la prima volta consentirono agli iscritti a un soggetto politico di indicare il nome da presentare come candidato presidente della Repubblica.

È stato inoltre un fatto inedito il voto sull’alleanza con la Lega prima e con il Pd poi: un nascente governo era appeso a una consultazione sul web.

Dunque, a ogni decisione da suggellare, è stato rispolverato il totem della votazione online, che fino a due anni fa si celebravano sulla piattaforma Rousseau, gestita da Davide Casaleggio.

Uno strumento organico al partito, se non proprietario del partito stesso, visto che deteneva i dati degli iscritti sovrintendendo le operazioni e beneficiando di un contributo da parte degli eletti.

Un caso più unico che raro di una associazione padrona di un movimento politico. Con il tempo la smodata passione per il web si è affievolita: basti pensare al pensionamento dello streaming che avrebbe dovuto rendere pubblico qualsiasi incontro politico del Movimento 5 stelle.

La leadership di Giuseppe Conte ha ridimensionato l’ossessione della democrazia digitale con il ricorso centellinato allo strumento.

Nel frattempo, c’è stato il divorzio con Rousseau e il servizio è stato appaltato a una società esterna, SkyVote, che con i pentastellati ha esclusivamente un rapporto lavorativo: garantisce una prestazione a fronte di una remunerazione.

Bob e le agorà

La tentazione della digitalizzazione del partito ha spesso attraversato anche il Pd. All’epoca della leadership di Matteo Renzi, nel 2017, fu lanciata la piattaforma Bob, in memoria di Bob Kennedy e in risposta a Rousseau dei 5 Stelle. Il progetto è finito nel dimenticatoio senza lasciare traccia.

Con lo stesso intento di aumentare la partecipazione, il segretario dem in carica, Enrico Letta, ha fondato le agorà democratiche, un luogo virtuale in cui si sono sviluppati dei dibattiti.

Alla fine del percorso sono state elaborate delle proposte, per cui il partito si impegna «a portare avanti almeno il 50 per cento delle 100 delle proposte più sostenute e commentate sulla piattaforma».

Al di là dell’iniziale impatto mediatico, le agorà democratiche non hanno incarnato una rivoluzione per i dem. Quindi ora, di fronte alla possibilità di aprire al voto online come chiesto dalla candidata alla segretaria Elly Schlein, c’è chi spinge per la rinuncia, tra molte tensioni.

Ci si vuole affidare alla tradizione, benché il «sedicente conflitto tra vecchia militanza e nuova partecipazione sia un artificio retorico», sostiene la deputata del Pd, Chiara Gribaudo.

Vecchie firme per le liste

Ma non solo nei partiti c’è la tendenza a mettere in disparte la democrazia digitale. Sul piano istituzionale, infatti, resta inutilizzabile la piattaforma nazionale per la raccolta firme necessarie all'indizione dei referendum e proposte di legge di iniziativa popolare.

L’ex ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao, aveva garantito il rilascio dello strumento all’inizio del 2022. È stata lanciata online, in ritardo, nel novembre scorso. Solo che tuttora la piattaforma risulta «in fase di test» e «l’accesso al sistema non è pertanto consentito», si legge sul sito.

Per questo il deputato di +Europa Riccardo Magi ha annunciato di un’interrogazione rivolta al sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti, erede del dossier. «Quanto devono attendere i cittadini per la reale entrata in vigore della piattaforma?», è la richiesta di fondo. La risposta dovrà arrivare da palazzo Chigi.

Magi ricorda poi «che quando fu approvato il mio emendamento sulle firme digitali si parlava con toni allarmati di Spid democracy che avrebbe travolto il ruolo del parlamento. Non comprendendo che il digitale è fondamentale alle istituzioni per favorire la partecipazione».

Per questo il deputato ha presentato alla Camera una proposta di legge per garantire che le sottoscrizioni con lo Spid siano valide per la presentazione delle liste. 

Il tema delle firme digitali si riproporrà per le prossime elezioni europee, per cui le liste che non sono rappresentate nell’Europarlamento o non hanno collegamento con i gruppi europei sono chiamati a raccogliere decine di migliaia di sottoscrizioni.

Cappato, che si è battuto per la certificazione delle firme digitali alle politiche di settembre, osserva sul punto: «È importante non solo che entri in funzione la piattaforma pubblica per la sottoscrizione di leggi di iniziativa popolare e referendum, ma che il suo uso si possa estendere alla presentazione di liste alle elezioni e all’attivazione di tutti gli strumenti di iniziativa popolare a livello locale ed europeo».

© Riproduzione riservata