«Ora devo ricostruire da zero la mia vita». Dopo che nel tardo pomeriggio è arrivatala certezza che per il governo Draghi non c’era più niente da fare, anche i più ottimisti tra i dissidenti anti Conte si sono rassegnati all’evidenza. Di fronte a loro ci sono una nuova campagna elettorale e una nuova legislatura di cui, per scelta o per conseguenza del risultato elettorale, non faranno parte.

È questo l’epilogo di una giornata in cui il Movimento 5 stelle ha deciso di tornare ad abbracciare la sua natura di formazione di protesta. La speranza è quella di tornare al 2018, ricostruire il sentimento anticasta che gli aveva consegnato percentuali inimmaginabili. La fiducia nelle capacità di farcela, a differenza di quattro anni fa, manca a quasi tutti gli eletti.

Il grande assente della giornata è il presidente Giuseppe Conte, che raggiunge in mattinata gli uffici del Movimento e poi fa perdere le sue tracce. I ministri Cinque stelle si presentano in aula con le facce terree, Stefano Patuanelli, originariamente seduto accanto a Mario Draghi, cambia posto all’ultimo con Lorenzo Guerini.

Eppure la decisione finale arriva all’ultimo minuto utile, dopo che i vertici Cinque stelle sono rimasti in riunione fin dalla mattinata, subito dopo le comunicazioni del premier. Il presidente del Consiglio si era rivolto soprattutto alla Lega, offrendo ai Cinque stelle aperture su superbonus e reddito di cittadinanza che avevano fatto sperare i governisti.

L’ultimo confronto

A quel punto, ha avuto inizio il lunghissimo confronto che ha prodotto l’intervento di Ettore Licheri prima e quello definitivo della capogruppo Mariolina Castellone poi. Licheri non le ha mandate a dire, accusando il presidente di opporsi alle misure targate Cinque stelle.

«Chiediamo dignità per il documento che le abbiamo dato dove ci sono i problemi, le analisi e le soluzioni». Draghi nella sua replica insiste su superbonus e reddito di cittadinanza e corregge dove ritiene di esser stato frainteso da Licheri.

L’intervento durissimo scuote le chat Cinque stelle, che si riempiono di livore nei confronti del premier. Così, i vertici decidono di puntare tutto sul ritorno alle origini e strappano rifiutando di partecipare al voto.

La decisione è presa e i senatori o non si presentano alla chiama o partecipano ma non votano per garantire comunque il numero legale. Congelata la scissione che negli ultimi giorni aveva preso sempre più corpo. Al Senato i numeri degli oppositori non erano mai stati alti, ma anche alla Camera ora è tutto da ridiscutere.

Gli sconfitti della giornata

I Cinque stelle passano in secondo piano rispetto alla svolta pomeridiana del centrodestra, che, chiedendo la discontinuità al presidente del Consiglio, scommette sul fatto che Draghi non cambierà la composizione del governo, tenendo a bordo i Cinque stelle.

I grandi sconfitti della giornata, forse più dei Cinque stelle, sono i dimaiani. Rischiando tutto, hanno lasciato un mese fa il Movimento per costruire un nuovo partito con il ministro degli Esteri, contando sui dieci mesi rimanenti prima della fine naturale della legislatura per creare una cosa ecologista con il sindaco di Milano Beppe Sala. Un piano che ora fallisce prima di nascere: con le elezioni a ottobre il tempo non basta per organizzarsi e Sala rimarrà a palazzo Marino.

L’ultima speranza è di trovare posto nell’area Pd al posto dei Cinque stelle per sperare in una candidatura di Luigi Di Maio e dei suoi fedelissimi come indipendenti di area, ma si tratta di opzioni ancora tutte da verificare. Per non rischiare di fare il passo più lungo della gamba anche stavolta.

 

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