Elly Schlein, nata il 4 maggio 1985, aveva quattro anni e mezzo quando il 12 novembre 1989 Achille Occhetto andò a Bologna ad annunciare che avrebbe rimesso in discussione il Pci, nome e simbolo compresi; non aveva ancora compiuto undici anni quando l’Ulivo di Romano Prodi vinse le elezioni il 21 aprile 1996, ne aveva 22 nel 2007, quando Walter Veltroni si candidò alla guida del nascente Partito democratico.

Quindici anni e otto segretari dopo, tutti uomini, ri-entra, ri-torna nel Pd, lei che per la prima volta era comparsa in scena per occuparlo.

Nel momento più cupo per il partito, il 19 aprile 2013, il giorno in cui il fondatore dell’Ulivo e del centrosinistra Prodi fu politicamente eliminato dalla corsa per il Quirinale da 101 parlamentari del Pd a volto coperto e a voto segreto, aprendo la strada a un governo delle larghe intese con il Pdl di Silvio Berlusconi (presidente: Enrico Letta).

Sulla rete e poi fisicamente, nelle sedi locali del partito, ventenni e trentenni occuparono le sedi in molte zone d’Italia, dalla Val d’Aosta alla Sardegna.

Arrivarono all’assemblea nazionale del Pd chiamata a eleggere il successore di Pier Luigi Bersani segretario dimissionario in maglietta, con la scritta “Siamo più di 101”, nello scenario lunare della nuova fiera di Roma.

Si riunirono a Prato e trovarono una giovane leader: Elly Schlein. «Siamo signori nessuno, ma inondati da messaggi da persone che sono dentro e fuori il partito. Dobbiamo rendere di nuovo questo posto una casa di tutti. Siamo noi la sintesi».

Quel 19 aprile 2013 successero molte altre cose. La congiura dei 101 e le dimissioni di Bersani che aprirono la strada alla leadership di Matteo Renzi.

E la rivolta generazionale contro Bersani e contro il presidente della regione Emilia-Romagna Vasco Errani scatenata dal segretario regionale. «Capisce? Perfino Bonaccini! Bersani e Errani tornarono a casa e scoprirono che i figli avevano cambiato la serratura e li avevano buttati fuori!», mi disse un dirigente dell’epoca.

Il segretario regionale del Pd emiliano-romagnolo era, appunto, Stefano Bonaccini. Un fedelissimo di Bersani. Quel giorno cambiò campo e i risultati si videro.

Alle primarie del 2 dicembre 2012 per la premiership nella regione Bersani aveva conquistato il 60,8 e Renzi il 39,2. «Bersani deve fare come Hollande: ha conquistato il partito e poi la Francia», teorizzava all’epoca Bonaccini.

Soltanto un anno dopo, alle primarie per la segreteria Pd, l’8 dicembre 2013, Renzi prese il 71,5 per cento, lasciando le briciole a Gianni Cuperlo e a Pippo Civati.

Bonaccini era il capo della sua mozione e divenne presidente della regione nel 2014. Lo è ancora. Ieri, da Campogalliano, la sua città natale, candidandosi alla segreteria del Pd, ha giurato di non aver fatto parte di nessuna corrente, dopo averle guidate tutte.

L’expat del Pd

Oggi Schlein ha 37 anni, è dal 25 settembre deputata nazionale, dopo essere stata eletta parlamentare europea con 53.702 voti di preferenza nella circoscrizione nord est alle elezioni del 2014 (quelle del 40 per cento di Matteo Renzi) e vicepresidente della regione Emilia-Romagna con la sua lista Coraggiosa e il record di 22mila preferenze.

Di tutti i candidati che si preparano a contendersi la segreteria, da Paola De Micheli a Matteo Ricci, è la sola che partecipa da esterna, per concorrere si deve iscrivere alla fase costituente.

Ma non è una aliena, una straniera. È una expat della politica, una expat del Pd, al pari di tanti giovani italiani: costretta a espatriare.

Una esule a casa propria, come sono tanti elettori del Pd, li definì così anni fa Ilvo Diamanti (“Il Pd esule in casa”, Repubblica, 10 giugno 2009).

Al contrario di quanto si dice, tra tutti i candidati Schlein è quella che del Pd incarna meglio il percorso di 15 anni, con tutte le sue fratture: le ambiguità, le fragilità, le potenzialità. All’opposto di alcuni soci fondatori che del Pd sembrano aver condiviso tutto e invece, forse, non hanno condiviso quasi nulla.

Esce in questi giorni, con grande rullo di interviste e di presentazioni, il libro di Goffredo Bettini A sinistra da capo (Arturo Parisi si è chiesto: voleva dire da capo o da Capo?).

Un libro che è anche il memoir dell’ultimo erede del comunismo italiano, ha appena compiuto 70 anni. Il racconto del suo rapporto con i grandi dirigenti dimenticati del Pci, da Gerardo Chiaromonte a Paolo Bufalini.

Il senso del potere («è un formidabile analgesico per attutire l’angoscia di morte. Un salvataggio. Un’ancora cui aggrapparsi». «Il potere mediato, più è ampio e aperto, e più assume una forza che si moltiplica e irradia: quante volte l'ho verificato»).

Una confessione, una seduta di autoanalisi: «Vedo la realtà attraverso il linguaggio politico. Riesco ad affrontarla e a maneggiarla, anche quella privata, principalmente attraverso le categorie del politico. Perfino nei sogni, tutto è sempre riconducibile a quella dimensione».

La rivendicazione di un ruolo informale, senza incarichi, ma sempre presente, anche nei momenti più delicati: «Sulla corsa al Quirinale avevo stabilito con Salvini un dialogo amichevole e una qualche reciproca fiducia».

Un testo che va letto in controluce. Perché riflette la riserva mentale con cui un pezzo di sinistra ex Pci, post Pci, ha aderito in più di trent’anni al passaggio della Bolognina di Achille Occhetto e poi all’Ulivo e infine al Pd.

Il partito stato di necessità

Uno stato di necessità. Nella storia dei post comunisti italiani dal 1989 a oggi, c’è sempre un momento in cui si impone la necessità.

Lo racconta bene Bettini, che alla svolta di Occhetto dedica otto frettolose righe, a pagina 81 («avevamo introiettato l’idea che i comunisti italiani venivano identificati con l’Urss. Non so se fosse una percezione esatta, fino al punto di sacrificare un simbolo così amato dagli italiani. Ma tant’è») e una sequenza di critiche nelle pagine successive: ansia di manovra politica contingente, una condizione politica e culturale confusa, una postura difensiva, in bolina. Stesso spazio, più o meno, viene dedicato all’Ulivo di Prodi.

Molto di più Bettini concede alla nascita del Pd di Veltroni, di cui fu protagonista. Così ne ricorda l’incubazione: «Stavo al Senato, tra i banchi in basso, da quella postazione tenni centinaia di colloqui... alla stretta andai a trovare Veltroni nel suo studio in Campidoglio».

Pochi passaggi come questo rappresentano meglio la scissione tra la denuncia della politica lontana dalla società, ottima da lanciare in convegni e interviste, e la pratica che invece richiede abilità manovriera, relazioni di vertice, cuius regio eius religio. Fino ad arrivare agli investimenti politici e alle delusioni più recenti, che ruotano attorno al nome di Giuseppe Conte.

Nel libro di Bettini, al di là delle intenzioni dell’autore, c’è il ritratto di una forza mossa dalla necessità, il partito del giorno dopo, quasi sempre in ritardo sugli appuntamenti storici: la necessità di cambiare nome al Pci (dopo la caduta del Muro di Berlino), la necessità di chiedere a Prodi di guidare l’Ulivo (dopo la sconfitta contro Berlusconi nel 1994), la necessità di fare il Partito democratico (dopo il fallimento dell’Unione nel 2006-2007), la necessità di appoggiare Matteo Renzi nel 2013 (dopo averlo avversato nel 2012) e di considerarlo il regista di ogni male (dopo averlo appoggiato senza riserve).

Infine, la necessità di trasformare Conte nel punto di riferimento dei progressisti italiani, salvo accorgersi (ora) che Conte è un rischio letale per la sinistra e che farà di tutto per distruggere quel che resta del Pd prima delle elezioni europee del 2024, per poi candidarsi da ricostruttore.

In tutte queste fasi, la sinistra è stata subalterna, non ha guidato ma si è fatta guidare dai poteri economici, finanziari e ovviamente editoriali, da lobby di ogni tipo, giudiziarie, militari, giornalistiche.

Nell’ansia di farsi accettare e legittimare ha predicato di voler fare la rivoluzione liberale, le privatizzazioni. E ha delegato il compito di guidare agli altri, a un pezzo di centro o addirittura di centrodestra o del Movimento 5 Stelle: le bicamerali, le larghe intese con Berlusconi, l’unità nazionale, i giallorossi, sempre con la guida delegata agli altri, la rappresentanza sociale abbandonata, le istituzioni dilaniate da leggi elettorali capestro e parlamentari dimezzati, il partito della borghesia benpensante che ha perso il popolo.

C’è da andare più a fondo, fino alle profonde ragioni psicologiche di una eterna minorità politica, per cui i post comunisti si sono sentiti sempre figli di un dio minore, con la paura di gareggiare e di vincere da soli, con le loro bandiere e le loro identità, perfino dopo essere arrivati al governo, quasi sempre trascinati da altri leader, da altri volti.

E oggi sono divisi, vanno a rimorchio di due candidati, Schlein e Bonaccini, molto diversi tra loro, ma compiutamente post, senza i complessi di inferiorità delle generazioni precedenti e dei loro pallidi epigoni.

Il Lenin di Campogalliano

In una domenica di novembre, come fu la giornata della Bolognina di Occhetto, dal cuore dell’Emilia è partita ieri la corsa di Stefano Bonaccini, il primo presidente della regione a candidarsi alla segreteria del partito (Bersani lo era stato molti anni prima di correre per la leadership).

Effigiato su Facebook come un Lenin di Campogalliano, comune del modenese nativo di Bonaccini e di Edmondo Berselli, un gran pezzo dell’Emilia, dunque.

Bonaccini del Pd è l’immagine che ama dare di sé il partito emiliano: solido, roccioso, granitico, pragmatico. Maschile e maschilista, anche. E da tempo, in realtà, molto meno monolitico di quanto appaia.

Il partito emiliano non è mai stato all’opposizione interna, non ha mai perso un congresso, ha appoggiato e fatto vincere tutti i segretari del Pd eletti con le primarie: Veltroni, Bersani, Renzi, Zingaretti.

Difficile perciò esprimere una discontinuità con il passato. Chiamato a farlo, Bonaccini non poteva prendere le distanze dal Jobs Act o dall’agenda Draghi e si è rifugiato nella posizione più popolare: bombardare a testa bassa il gruppo dirigente di Roma.

Le correnti di Roma «che organizzano il partito e le percentuali delle candidature», i loro capi che «hanno abbandonato i collegi nei territori e si sono infilati nei listini al proporzionale in altre regioni». Ecco il ritratto, riconoscibile e condivisibile, di Dario Franceschini, emiliano di Ferrara, ma senatore di Napoli.

Una discesa in campo che si pone come leaderistica, carica di energia, ma anche di inquietudine. «Siamo preoccupati per te», ha subito ammesso Paola Guerzoni, la sindaca di Campogalliano, che gli ha regalato un «quadernino», un diario di viaggio, carico di oggetti «indispensabili» che tradiscono la diffidenza con cui comincia questo cammino.

I biglietti del treno Roma-Bologna, «perché sappiamo che stare troppo a Roma non va bene», stivaloni anti scivolo «perché ti tireranno addosso tanto fango», corde anti vento «per resistere alle correnti», e una bussola «perché sappiamo che conosci bene la geografia, ma l’Italia è tanto lunga...».

Molto lunga: quando Bonaccini ha detto di conoscere il sud attraverso i tanti «ragazzi e ragazze» che lavorano e studiano in Emilia, perché «hanno contribuito a trasformare la nostra in terra di eccellenza», nei sepolcri dei Mille di Garibaldi si è udito un fremito, e anche nelle segreterie di Vincenzo De Luca e di Michele Emiliano. La bussola servirà.

Primum vivere

Il Pd è di fronte alla sfida che vale la sua sopravvivenza. E alla vita dell’unico partito organizzato dell’opposizione, perché gli altri soggetti (M5s, Italia viva, Azione) sono partiti personali. Per il Pd è una croce che oggi può costare la fine.

Primum vivere, dicevano i socialisti scesi sotto il 10 per cento alle elezioni del 1976 al momento di eleggere Bettino Craxi alla segreteria del Psi, a nome di una nuova generazione di dirigenti che scommettevano su un’Italia nuova: i meriti e i bisogni della conferenza di Rimini del 1982 (la colpa storica fu quella di non essere all'altezza di quella intuizione).

Primum vivere per il Pd, attraversato da tentazioni autolesioniste, di latente suicidio politico, circondato da un dibattito culturale e intellettuale povero e conformista, inaridito per lo smarrimento delle proprie radici sociali.

Alcune immagini viste all’assemblea di sabato, frammenti di case sullo sfondo di certi intervenuti in assemblea in collegamento, degne di un concorso per architettura di interni, illuminavano questo smarrimento: raffiguravano i non-luoghi abitati dai dirigenti di un non-partito, dalla identità incerta, di fronte a una partita letale. L’estremo tentativo di salvataggio, forse tardivo.

La sfida tra Bonaccini e Schlein è antropologica, più che politica. Un uomo che si propone di salvare il partito, con l'ottimismo della volontà e la vigoria del leader che avverte lo smarrimento e che vuole rottamare i suoi coetanei, e una giovane donna, già diventata professionista della politica, che può diventare il simbolo di una generazione nuova, di una squadra di trentenni-quarantenni nati con l’Ulivo e con il Pd, e che dovrà subito divincolarsi dagli abbracci mortali dei signori della guerra di sempre, a partire da Franceschini e dalla vecchia sinistra, ma anche dimostrare di saper scrivere una nuova sintesi delle anime e delle culture di tutto il centrosinistra.

A partire dalla ricucitura delle mille divisioni che sono il vero humus di crescita per la destra: nord-sud, uomini-donne, vecchi-giovani, inseriti-precari.

Il modello recente è il premier socialista spagnolo Pedro Sanchez che nel 2017 lasciò la guida del Psoe e poi il seggio da parlamentare, andò in giro per il paese, tornò e sconfisse alle primarie Susana Díaz, la potente presidente della regione Andalusia.

La premessa per tornare al governo e ridurre le ambizioni di Podemos, evitando un destino già segnato, l’irrilevanza. L'opposto del modello francese, dove invece il partito socialista si è dissolto nel giro di pochi anni, dilaniato tra il centrista Emmanuel Macron e il gauchista Jean-Luc Mélenchon.

Il fatto nuovo è che in questo sfacelo entra in competizione un'altra sinistra. «Abito nella Possibilità/Una Dimora più bella della Prosa», recita una poesia di Emily Dickinson. La sinistra delle possibilità, contrapposta a quella della necessità, che invece si lascia trascinare dagli eventi perché non c'è alternativa, perché non si può fare altro. Ma anche le scelte non possono essere infinite, pena il perdersi, dopo aver perso: quello, già fatto.

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