In piena sindrome francese: il Pd rischia di finire in piena sindrome del partito socialista francese, le Parti Socialiste, il partito di François Mitterrand e François Hollande ormai ridotto a un esangue 5 per cento dalla tenaglia Macron-Mélenchon. Il Pd rischia di essere stritolato e svuotato da una parte da Matteo Renzi, o Carlo Calenda, dall’altra da Giuseppe Conte. Domenica scorsa ha versato un tributo di voti a entrambi. 

Enrico Letta aveva avvertito il problema per tempo in campagna elettorale. Lo «scenario francese» era stato uno degli argomenti del confronto con il cancelliere Olaf Scholz e gli altri esponenti della Spd tedesca: anche i socialdemocratici tedeschi sono sopravvissuti a pressioni analoghe, ad esempio della Linke. Il Pd e Spd sono al momento i due più grandi partito socialisti europei. «Resistete», aveva detto Scholz a Letta al momento dei saluti.  

Direzione la prossima settimana

Per questa ragione in queste ore Letta e i suoi stanno cercando di convincere tutto il gruppo dirigente a frenare l’ansia dichiaratoria almeno fino a mercoledì o giovedì della prossima settimana, quando verrà convocata la direzione per l’analisi del voto.

Un dibattito scomposto sui media rischia di alzare il tasso di confusione. E favorire appunto il precipizio verso la sindrome francese. Se non peggio: perché in alcuni dei discorsi che circolano in queste ore torna uno spauracchio che da quindici anni era stato rigorosamente tenuto fuori dalla porta del Nazareno: è l’ipotesi di una rottura interna, insomma il vecchio incubo della scissione. Un classico della sinistra radicale. 

L’incubo del crack

L’ipotesi è solo di scuola: il Pd è comunque il secondo partito del paese, per essere un fallimento, il partito resta un fallimento di successo. Eppure qua e là nei ragionamenti si coglie un non detto, la traccia della paura del crack: «Dobbiamo definire la nostra identità. Senza farci lacerare da Cinque stelle e Terzo Polo», dice il sindaco di Firenze Dario Nardella. «Siamo vicini a un punto di non ritorno di fronte al quale occorre una risposta straordinaria», dice il ministro Andrea Orlando. È tempo di «ridefinire senso e missione del Pd», secondo l’ex presidente Matteo Orfini. 

Tutte parole che, più o meno implicitamente, hanno alla base un pensiero se non un retropensiero: in questo momento il Pd si trova stretto nella morsa fra Conte e Renzi. Il prossimo Pd dovrà ritrovare una sua identità, ma alla fine, come in questa campagna elettorale, dovrà scegliere un posizionamento politico nel campo dell’opposizione: una postura, un assetto. Ovvero guardare di qua o di là: o dalla parte progressismo populista dei Cinque stelle, o da quella del  centro liberale e liberista del Terzo (Quarto) Polo. 

L’avviso di Art.1

C’è un’altra variabile, che oggettivamente soffia per un chiarimento interno fra le anime del Pd. Ed è il ruolo di Art.1. Il partito di Bersani e Speranza è entrato a pieno titolo nelle liste del Pd, ma durante la campagna elettorale è stato lacerato dai militanti e anche dai dirigenti che sceglievano di votare Cinque stelle.

Conte era perfettamente conscio del fenomeno, al punto da alludere al fatto che Bersani lo votasse. La smentita dell’ex segretario è arrivata subito, ma questo non ha fermato la vena aperta verso il Movimento.

Ora Art.1, per bocca del suo numero due Arturo Scotto, per entrare nel dibattito congressuale del Pd chiede «un processo costituente per una forza politica nuova – nome, simbolo, modello di organizzazione», «Non si può tenere tutto insieme: oggi torna una domanda di voto identitario», «Dobbiamo ripartire dalle fondamenta».

Perché «Conte punta esplicitamente a un’opa sul campo dei progressisti». Ma la spinta verso una costituente «di sinistra» è un dito nell’occhio per l’area riformista che invece con Bonaccini, e un nuovo giro di gazebo, è già pronta a governare il partito e a tornare a guardare dalla parte di Renzi e Calenda. 

Il terzo aiuta il primo

Intanto però c’è un pezzo del partito che si attrezza per il congresso che ancora non c’è. L’apertura dell’iter potrebbe arrivare già la prossima settimana, i candidati ancora non ci sono,  ma c’è già il terzo uomo; che però è una donna.

L’ex ministra Paola De Micheli, titolare di una personalissima corrente ma soprattutto di un carattere molto impaziente, non ha aspettato neanche l’alba del terzo giorno dalla sconfitta elettorale per lanciarsi dal trampolino del quotidiano Repubblica a capofitto nella mischia. De Micheli, già numero due di Nicola Zingaretti nella campagna delle primarie del 2019, non ha reali possibilità di fare la segretaria: ma la sua presenza basta intanto a non concedere a Elly Schlein, se mai avesse davvero intenzione di candidarsi, l’esclusiva di una candidatura al femminile. E soprattutto la sua corsa si delinea già come quella per il classico “terzo” posto che può unirsi al primo in circostanze particolari, e tornargli utile. E al momento il potenziale “primo” nome per la successione di Letta è Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna. 

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