C’è un altro obiettivo del Pnrr che l’Italia rischia di mancare, oltre a quelli di cui più si discute in questi giorni. Ed è quello dell’occupazione femminile. È l’allarme che dà Maurizio Ferrera, docente di Scienze politiche e sociali alla Statale di Milano, ed esperto di politiche pubbliche italiane ed europee. Sulla carta chi vuole partecipare ai bandi finanziati deve assicurare l’assunzione del 30 per cento di under 36 e del 30 per cento di donne. Ma, sorpresa – si fa per dire – non va così. 

I primi dati dell’Autorità nazionale anticorruzione dicono infatti che nel 69 per cento dei casi non sta succedendo. Grazie a una serie nebbiosa e interpretabile di deroghe all’art.47 della legge 77/2021, quella che regola la governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza. «Succede che questa clausola di fatto sta sparendo», secondo il monitoraggio del professore Ferrera. «La Commissione europea l’aveva indicata come una priorità da inserire nei Pnrr nazionali, ma il governo Draghi aveva deciso di non farne una missione separata, ma una missione trasversale, secondo un principio che in effetti è usuale nelle politiche comunitarie, quello del gender mainstreaming, e cioè della integrazione di tutti gli obiettivi che riguardano le donne e i giovani in ogni politica. Il fatto è che seppure bene intenzionata, la strategia del mainstreaming funziona nei paesi in cui c’è una forte consapevolezza dell’importanza di questi obiettivi. Nei paesi come l’talia invece non funziona.

Perché?

Perché da noi è poco radicata la cultura della priorità trasversale, e finisce che nessuno poi se ne occupa. Nelle altre missioni del Pnrr ci sono obiettivi cadenzati e quantificati che ne rendono la realizzazione più certa e misurabile. Invece la natura trasversale degli obiettivi che riguardano le donne e i giovani fa sì che non ci siano dei target e delle milestones autonomi. Che si possano osservare, ad esempio, come succede per il numero dei centri per l’impiego aperti o quello degli ospedali. Per far sì che la priorità trasversale non fallisca serve un piano separato, una strategia separata, che precisi i target delle altre missioni in termini di occupazione femminile e giovanile. Che invece non sono priorità autonome.

Ma se il Pnrr prevede che gli «operatori economici», aziende e cooperative, che partecipano ai bandi debbono assumere il 30 per cento di donne e giovani, perché l’obiettivo di fatto sta saltando?

Il documento strategico è stato adottato nell’estate del 2021 dalla ministra per le pari opportunità Elena Bonetti. Ma già quel testo era generico, appiattito sulle quote e sulla retribuzione. Cose importanti ma meno del grande obiettivo del tasso di occupazione femminile, ovvero l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Era un documento poco ambizioso, e prevedeva organi di controllo e pianificazione a livello centrale. Per la costituzione di questi organi è servito quasi un anno. Le nomine alla fine sono arrivate ma il governo Draghi è caduto, e in sostanza non se n’è fatto nulla. L’infrastruttura che doveva monitorare la realizzazione degli obiettivi sulla priorità trasversale di fatto non c’è. Tanto più che ora la governance del Pnrr è stata cambiata, e la governance delle politiche di genere si è persa nelle pieghe di questo cambiamento.

Gli altri paesi europei si sono attrezzati diversamente?

Per lo più negli altri paesi si è deciso di dedicare al tema delle donne e dei giovani una missione distintiva, con target che si possono osservare e valutare anche da parte dell’opinione pubblica. In Italia, pur essendo il problema molto importante, anche di più rispetto agli altri paesi, ci si è illusi di poterlo affrontare attraverso una strategia sulla carta molto ambiziosa, quella del mainstreaming. Invece siamo al fatto che questa cosa è praticamente non governata. Le priorità del dipartimento pari opportunità si sono spostate sul tema della famiglia e della natalità, basta guardarne il sito e verificare che i riferimenti al Pnrr sono pochi e burocratici. In questi decenni in Italia è andata sempre così: il tema dell’occupazione femminile per i governi è carsico, affiora e poi si inabissa. Nel 2007 le ministre dell’Ulivo lo hanno posto, le chiamavano “zapatere” per questo, ma poi caduto l’Ulivo l’agenda per donne si è inabissata. È riemersa durante il governo Monti, con la ministra Fornero; è riapparsa con la ministra Bonetti. Ora si è di nuovo inabissata.

Il rischio concreto è che le assunzioni delle donne non saranno quelle dettate dalla commissione europea?

La norma c’è ancora, ma sono intervenute deroghe. E soprattutto non ci sono meccanismi di controllo e di sanzione. Se anche le imprese, le aziende e le pubbliche amministrazioni si impegneranno ad assumere donne e giovani nella quota prevista, lo considereranno un impegno non vincolante in quanto non sanzionato. Norme così soft sono poco più che un invito.

Le deroghe sono state giustificate per non mettere in difficoltà settori poco appetibili per le donne, come l’edilizia.

Ci sono settori meno femminilizzati di altri, però un governo attento potrebbe disegnare un sistema di incentivi per cui ciò che si perdi in un settore viene recuperato in altri.

L’opposizione non si è fatta abbastanza sentire?

Pochissimo. Innanzitutto dovrebbe elevare nel discorso pubblico la rilevanza di questo tema, perché è vero che se nei documenti del nuovo Pd ci molti riferimenti, quando la segretaria Elly Schlein parla di lavoro si riferisce per lo più alla precarietà e molto meno di occupazione femminile. Sono cose diverse, che richiedono misure e politiche diverse. Schlein dovrebbe puntare su un pacchetto di proposte su come fare spazio alle donne nel mercato del lavoro. Il che significa innanzitutto lavorare alla conciliazione, perché dalle statistiche si vede bene che molte donne, soprattutto le madri o le donne con anziani a carico, preferiscono stare a casa perché hanno carichi di cura che costerebbe troppo ammortizzare sul mercato: perché le badanti sono care e lo stipendio se ne andrebbe a pagare un caregiver esterno. L’etica della conciliazione e della condivisione è recente e non radicata nel nostro paese, riguarda solo le fasce più giovani, più istruite e più il Nord che il Sud. E riguarda solo alcuni aspetti dell’organizzazione familiare, per esempio nelle nostre statistiche c’è evidenza che gli uomini giovani e istruiti sono più interessati a occuparsi di figli e di cucina, ma non alla cura degli anziani. All’interno della condivisione familiare ci sono ancora squilibri che gravano sulle donne. Diversamente da altri paesi, che hanno iniziato prima questo percorso. Nei paesi scandinavi siamo già alla seconda generazione di maschi che “condividono”. Anche lì c’è ancora qualche differenziale ma è basso, anche perché in quell’area in compiti di cura sono stati progressivamente esternalizzati: perché si sono fatti i servizi pubblici. Nei convegni in Finlandia e Svezia c'è sempre una nursery dalle sette della mattina alle dieci di sera, così gli accademici che hanno dei figli. Da noi capita molto meno. E l'effetto di questo ritardo culturale è che non si crea una domanda politica, non ci sono mobilitazioni. Anche il possibile taglio degli asili nido del Pnrr non ha scatenato particolari reazioni, neanche da parte delle donne.

Serve un osservatorio sul Pnrr specifico sull’occupazione femminile.

Lo considero il minimo sindacale per una sinistra e una leader che si dichiara femminista come Elly Schlein. Serve di più: serve un’inversione di rotta a livello locale, nelle città e nelle regioni dove il Pd governa. Perché l’occupazione si crea sui territori attraverso il censimento dei bisogni, e un lavoro paziente di raccordo con le imprese con le associazioni e i sindacati. Noi politologi distinguiamo fra l’aggregazione degli interessi e la loro articolazione. C’è bisogno che l’interesse all’occupazione femminile, alla condivisione e alla conciliazione vengano articolati. Serve una formazione dedicata per gli amministratori locali, che li aiuti da adoperarsi nei territori per attivare dinamiche di nuovi lavori, soprattutto nelle aree in cui mancano i servizi. In Italia manca un milione di posti di lavoro nei servizi alle famiglie, l’assistenza all’infanzia o agli anziani, il doposcuola, tutti settori in cui possono trovare occupazione proprio molte donne. L’evidenza, ancora nei paesi scandinavi che su questo sono un modello, è che l’occupazione femminile è stata favorita attraverso l’estensione dei servizi pubblici.

Che però costano.

Vero, ma è stato calcolato che per ogni donna che entra nel mercato del lavoro si creano altri due posti di lavoro. È una specie di volano. Perché una donna che lavora, compra sul mercato servizi che prima faceva a casa: usa di più le tintorie, compra di più nei supermercati. Insomma più donne lavorano e più posti di lavoro si creano. È andata così in Francia e in Spagna. Solo quindici anni fa la Spagna stava più in basso di noi in termini di occupazione femminile. Adesso ha dieci punti più.

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