Carlo Calenda annuncerà la sua candidatura a sindaco di Roma questa sera, durante la trasmissione “Che tempo che fa”. O forse no e si prenderà ancora qualche giorno per pensarci. Ha detto che deciderà «indipendentemente» da ciò che farà il Pd, ma in realtà ha un disperato bisogno proprio del Pd se vuole che la sua avventura abbia successo. Ma invece che tessere in silenzio la rete della coalizione necessaria a sostenerlo, Calenda si  è messo a dettare condizioni ai suoi potenziali alleati. Dice di non voler affrontare primarie e pretende di restare all’opposizione del governo di cui il Pd fa parte.

L’enfant prodige

Non è la prima volta che Calenda si comporta come un amico che si auto invita a casa tua e pretende di decidere il menu della cena. Calenda ha 47 anni e un gran brutto carattere. Viene da una famiglia di ambasciatori, registi e scrittori, ha lavorato come manager in Ferrari ed è stato assistente del presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. È grazie a lui se è entrato in politica, prima come viceministro in quota Scelta Civica, l’effimero partito di Mario Monti, e poi trascorrendo due anni come apprezzato ministro dello Sviluppo economico sotto Renzi e Gentiloni.

La sua recente ascesa politica è iniziata nel 2017 con l’eclissi politica di Matteo Renzi. Come Renzi, Calenda è un liberale pro business che crede che lo sviluppo del paese si produca tagliando tasse alle imprese e chiedendo flessibilità ai lavoratori. Per questo ha attirato su di sé il sostegno e l’attenzione delle stesse forze politiche, mediatiche ed economiche che in passato avevano appoggiato l’ex sindaco di Firenze.

Per il resto, i due non potrebbero essere più differenti. Renzi appare cinico e calcolatore, mentre Calenda sembra genuino e a volte perfino ingenuo. Mentre Renzi è alieno da ogni ragionamento politico non strettamente personale, Calenda ha spesso messo in discussione le sue idee, domandandosi perché in così tanti luoghi e occasioni abbiano fallito nel produrre benessere e consenso elettorale. Anche se non ha fornito una risposta sicura alle domande che si pone, Calenda è comunque certo di poter offrire un contributo significativo al dibattito. Negli ultimi due anni, ha concesso 143 interviste, è apparso in televisione decine e decine di volte e ha scritto più di quindicimila tweet

Dentro e fuori il Pd

Calenda è un tipo impulsivo, animato da un’incrollabile fiducia in sé stesso. Nessuno episodio mette in luce il suo carattere come il suo controverso rapporto con il Pd. Quando si è iscritto, all'indomani della sconfitta alle elezioni del 4 marzo 2018, ha subito precisato che intendeva «rimboccarsi le maniche», comportarsi da «semplice militante» e adottare un «basso profilo». Poi, mentre aveva ancora accanto il segretario del partito Maurizio Martina, venuto di persona ad accoglierlo, ha detto ai giornalisti che non era interessato a diventare segretario del Pd perché il partito aveva già un leader: non Martina, ma il suo amico Paolo Gentiloni.

Calenda è andato avanti così per settimane, intervenendo a gamba tesa nelle discussioni di partito, minacciando di stracciare la tessera appena fatta, mettendo un veto all’alleanza con il Movimento 5 stelle e arrivando a suggerire al presidente della Repubblica di fare un appello per un nuovo governo costituente. A volte Calenda sembra vittima del suo stesso personaggio, il politico che dice le cose come stanno e non si tiene dentro niente. Una volta ha tentato di risolvere una grana interna al partito invitando pubblicamente a cena Renzi, Gentiloni e l’ex ministro Marco Minniti, per poi arrabbiarsi altrettanto pubblicamente quando la cena è prevedibilmente fallita.

Con un orgoglio facile da ferire e sempre pronto a litigare con tutti, siano compagni di partito o sconosciuti su Twitter, Calenda ha presto iniziato a sentirsi stretto dentro Pd. Appena sei mesi dopo essersi iscritto, ha iniziato a dire che il Pd avrebbe dovuto entrare in un più vasto “Fronte repubblicano”, che implicitamente avrebbe dovuto essere guidato da lui stesso. La sua fortuna è stata quella di incontrare un Pd così debole da accontentare tutte le sue richieste. Anche se il partito non si è sciolto nel suo “Fronte repubblicano”, gli ha comunque consegnato la candidatura da capolista alle europee e gli ha ceduto metà del simbolo elettorale. Pochi mesi dopo, Calenda è uscito dal partito per fondare Azione, la sua nuova formazione.

Insomma, Calenda gioca meglio da solo che in squadra e l’elezione a sindaco di Roma rappresenta per lui un grande opportunità: una contesa iper personale, dove la sua bulimia comunicativa e la sua capacità di occupare la scena possono rivelarsi un vantaggio. Ma se vuole avere davvero una possibilità, dovrà fare i conti col suo caratteraccio, trovare il modo di costruire una coalizione col Pd romano e con le altre forze della sinistra. Dovrà probabilmente fare qualcosa di più che prendersela coi graffiti e il decoro urbano, come ha fatto fino ad ora, e cominciare a studiare sul serio i problemi della sterminata periferia romana.

Roma potrebbe essere per lui l’ultima occasione, prima che i velocissimi cicli politici del nostro tempo finiscano per divorarlo. Resta da vedere se Calenda sarà capace di convincere il Pd e almeno una parte della sinistra a fargli ancora una volta da cavalcatura in questa avventura. 

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