Nell’autunno del 2006 i giornalisti del Corriere della Sera Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo hanno iniziato a pensare di trasformare in un libro una serie di articoli sui costi e gli sprechi della politica in Italia che avevano pubblicato nei mesi precedenti.

La proposta gli era arrivata dalla casa editrice Rizzoli, la stessa che pubblicava il giornale per cui lavoravano. Dopo una breve discussione con il loro editor, Carlo Alberto Brioschi, hanno deciso di intitolarlo la Casta. Uscito nel maggio del 2007, è stato un successo senza precedenti. Ha venduto 1,7 milioni di copie ed è stato il saggio di politica più influente della sua generazione. Il termine “casta” è entrato nel lessico quotidiano e l’idea del libro, cioè che l’eccezionalità italiana è costituita da una classe politica sprecona e corrotta, è diventata un tema centrale nel dibattito pubblico del nostro paese.

Tredici anni dopo, l’avventura iniziata con la Casta è arrivata al suo apogeo. Il 20 e 21 settembre gli italiani sono chiamati a votare sulla riforma costituzionale che prevede il taglio dei parlamentari, la madre di tutte le battaglie anti casta. Ma nonostante la lotta agli sprechi della politica abbia unito trasversalmente partiti, giornalisti e intellettuali, nel paese non si respira un clima di festa. I grandi giornali che hanno iniziato la polemica sono in crisi di copie e contrari, o almeno incerti, su come posizionarsi rispetto alla riforma. I numerosi leader e partiti politici che l’hanno cavalcata, da Mario Monti a Matteo Renzi passando per il Movimento 5 stelle, sono spariti dal panorama politico, in crisi di consensi o sono ridotti ai minimi termini. Come il mitico dio Crono, la casta sembra aver divorato i suoi figli.

La crisi degli alfieri dell’anti casta era un risultato difficile da immaginare nei giorni in cui l’idea di un libro sugli sprechi della politica ha cominciato a prendere forma nelle menti dei suoi autori. Rizzo racconta che l’ispirazione gli è venuta scorrendo le tabelle della legge finanziaria. Tra quelle colonne di numeri era rimasto colpito dai fondi stanziati per le spese degli organi costituzionali, come le Camere, il Quirinale, la Corte costituzionale e il Cnel. Mentre tutte le altre spese venivano sempre tagliate, queste rimanevano costanti. All’inizio l’idea era quella di fare una serie di articoli. L’allora direttore del Corriere, Paolo Mieli, l’aveva molto apprezzata e valorizzata, richiamando i loro articoli in numerose prime pagine.

Rizzo racconta che il loro è stato un lavoro di grande collaborazione. Se c’era una divisione di compiti, dice, era frutto del loro diverso approccio al mestiere. «Gian Antonio, oltre a essere un eccellente cronista, è il più bravo in assoluto a raccontare storie», dice Rizzo, mentre lui ha una formazione più tecnica e una maggiore familiarità con la lettura dei bilanci e l’analisi dei numeri (Stella ha declinato una richiesta di intervista sul libro). Anche le loro diverse abitudini personali hanno contribuito a consolidare la collaborazione. Stella è uno che si alza molto presto al mattino, mentre Rizzo ama lavorare la sera e fare tardi la notte. Così, ogni mattina, il primo trovava pronto sul suo computer il materiale preparato dal suo collega la sera prima.

Il medico che diagnostica la malattia
La Casta è uscito il 2 maggio del 2007. È lungo poco meno di 250 pagine e scritto con uno stile accattivante e in più punti beffardo, che probabilmente deve molti dei suoi guizzi alla penna fantasiosa di Stella. È diviso in quattordici capitoli, che hanno titoli come Una casta di insaziabili bramini e Perso il Rolex d’oro? Paga la Camera. Gli argomenti spaziano dalle spese per affitti del parlamento agli scandali sui rimborsi richiesti dai consiglieri regionali, passando per le “baby pensioni” di deputati e senatori.

Prevedendo un certo successo del libro, la casa editrice Rizzoli ha stampato 33 mila copie della prima edizione: un numero considerevole per il mercato editoriale italiano, dove i saggi vendono in media qualche migliaia di copie. Ma anche questa generosa previsione si è dimostrata del tutto non all’altezza. Sostenuto da una massiccia campagna da parte del Corriere della Sera e con gli autori invitati in tutti i principali programmi televisivi di attualità, il libro è andato esaurito in pochi giorni e la casa editrice ha dovuto affrettarsi a stampare subito altre decine di migliaia di nuove copie. Rizzo si meraviglia ancora oggi di quello straordinario successo. Ma non sopravvaluta l’impatto del libro. «Con le dovute proporzioni, il nostro ruolo è stato come quello del medico che diagnostica qual è la malattia. L’antipolitica non la crea un libro, l’antipolitica è un fenomeno che probabilmente è latente in tutte le società», dice, respingendo con decisione l’idea che il saggio abbia generato, volontariamente o meno, l’ascesa di questa o quella forza politica.

È probabilmente vero, come dice Rizzo, che il successo della Casta è dovuto, oltre alla qualità giornalistica, anche al momento storico della sua pubblicazione. Pochi periodi nella sono stati così propizi per una polemica contro gli sprechi e la corruzione della politica come il maggio del 2007. Da un anno il secondo governo Prodi si barcamenava sostenuto da un’eterogenea coalizione parlamentare, che andava dall’Udeur di Clemente Mastella a Rifondazione comunista. Era un governo dalle proporzioni pachidermiche: 103 membri, il più numeroso nella storia della Repubblica. Queste dimensioni servivano ad accontentare tutti i componenti della coalizione ma non sono bastate a renderlo stabile. Con una minuscola maggioranza al Senato, il governo passava da una crisi all’altra e non concludeva nulla, mentre l’opposizione guidata da Silvio Berlusconi era sistematicamente accusata di corrompere i parlamentari per farli passare dalla sua parte.

Il secondo governo Prodi è stato uno dei meno popolari della storia recente, ma l’uscita della Casta non è stato il primo caso di polemica antipolitica in Italia. Massimo D’Alema, uno dei pochi a criticare fin da subito il libro di Stella e Rizzo, ha detto che i due autori avrebbero dovuto pagare i diritti alle Brigate Rosse, le prime a usare la parola “casta” per riferirsi ai partiti, per poi contrapporre le proteste di Occupy Wall Street contro gli eccessi della finanza con le polemiche italiane sui costi della politica. Questa contrapposizione è emersa spesso negli anni: l’accusa, cioè, che la polemica contro i politici sia stata usata in maniera strumentale per coprire le responsabilità di altri gruppi della classe dirigente.

Stella e Rizzo si sono sempre difesi sostenendo che il loro libro non se la prendeva con una parte politica. Tranne il Partito radicale, lodato per la sua coerenza, di fronte al loro tribunale finivano tutte le forze partitiche. «Quel libro è un libro di profondo amore per la politica, non un libro di antipolitica», dice Rizzo.

Ma le critiche sono rimaste e con gli anni si sono fatte sempre più affilate. Secondo l’allora vicedirettore del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, la Casta faceva parte di una campagna che «mettendo in luce le debolezze reali del governo Prodi puntava a favorire l’entrata in politica di un gruppo di tecnici esterni ai partiti». In quei mesi un nome circolava: il presidente di Ferrari e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo.  

Già mesi prima dell’uscita del libro di Stella e Rizzo, Montezemolo aveva iniziato ad attaccare il governo guidato da Romano Prodi, accusandolo di essere ostaggio della sinistra e quindi incapace di mettere in atto le riforme impopolari che erano essenziali per il futuro del paese. Durante l’estate aveva commissionato al centro studi di Confindustria un’analisi sui danni causati all’economia dagli sprechi e dai costi della politica. A gennaio, ospite di Fabio Fazio nel programma Che tempo che fa, aveva detto che il paese era diviso «tra chi rema e chi sta a poppa e fa due mesi di vacanze all’anno». Un riferimento esplicito ai politici “scansafatiche” accolto dagli applausi dello studio. Il suo ultimo discorso da presidente di Confindustria, un attacco a tutto campo al governo Prodi, alla «sinistra frenatrice» e alla classe politica più in generale, fatto poche settimane dopo l’uscita della Casta, è stato ribattezzato dai giornali «il manifesto politico dell’antipolitica». Quando hanno chiesto a Romano Prodi di commentare quella che molti consideravano la discesa in politica di Montezemolo, il presidente del Consiglio ha risposto: «Discesa? Al massimo sta salendo in politica».

Discesa o salita che fosse, Montezemolo ha continuato a fare l’imprenditore e ha smentito le ricostruzioni che gli attribuivano la volontà di candidarsi personalmente, così come Stella e Rizzo hanno sempre definito assurda l’ipotesi che il loro fosse qualcosa più di un’inchiesta giornalistica.

Una battaglia trasversale
Sono molti però quelli che in politica e sui media hanno cavalcato quella battaglia. Proprio nei mesi in cui la Casta conquistava la vetta di tutte le classifiche di vendita, lo spazio politico che secondo alcuni osservatori Montezemolo voleva occupare si stava chiudendo rapidamente. Nel centrosinistra stava emergendo un nuovo leader con cui il presidente uscente di Confindustria aveva un’ampia consonanza di vedute. Si trattava di una figura che Rizzo e Stella conoscevano bene: il leader del neonato Pd, Walter Veltroni. È a lui, scrivono i due autori della Casta nella prefazione, che si deve l’intuizione che ha portato al fortunato titolo del libro. In un discorso del 1999 Veltroni ha detto: «Quando i partiti si fanno caste di professionisti, la principale campagna anti partiti viene dai partiti stessi».

Proprio mentre usciva il libro, Veltroni era tornato a riferirsi frequentemente alla casta. In quei mesi si stava decidendo il futuro assetto del neonato Pd: un partito centrista e leggero, come voleva Veltroni, oppure un partito socialdemocratico, con un’organizzazione strutturata, dirigenti e funzionari? Nello scontro Veltroni ha utilizzato spesso argomenti simili a quelli di Stella e Rizzo. Il loro, ha detto, era «un bel libro che dice cose vere». Il Pd doveva lottare contro la «casta chiusa» e «autoreferenziale» dei vecchi partiti che, dopo tante discussioni, «non arrivavano mai a decidere niente». Anche la stampa internazionale si era accorta di questa campagna.

All’indomani della sua vittoria alle primarie del Partito democratico, la Süddeutsche Zeitung aveva scritto che il voto «non rappresenta solo un trionfo per Veltroni, ma anche una vittoria per l’Italia» poiché «dopo anni di immobilismo e di politica self service» sotto Berlusconi e Prodi, Veltroni avrebbe dato le risposte che servivano anche riguardo alla casta. La vittoria della mozione “anti casta” di Veltroni emerse con forza sia nella stesura dello statuto, che ha reso il Pd un partito snello e focalizzato sugli eletti più che sui funzionari e i militanti, sia nella composizione dei suoi primi organi di governo: nella direzione nazionale del partito solo il cinque per cento dei membri era costituito da funzionari di partito, mentre un quarto della segreteria era composto da figure esterne alla politica.

Nonostante queste novità, le elezioni del 2008 sono state una sconfitta e il Pd ha raccolto soltanto il 33 per cento dei voti, meno della somma dei partiti che si erano uniti per fondarlo. Al governo è ritornato Silvio Berlusconi, per molti l’emblema degli aspetti peggiori della casta. «Bisogna accettare l’idea che l’indignazione collettiva non è un sentimento eterno ma un’onda che va e viene – diceva uno sconsolato Stella in un’intervista dell’ottobre 2009   – ora mi sembra siamo in piena risacca». Non aveva idea di quanto si stesse sbagliando. Soltanto una settimana prima, il 4 ottobre del 2009, Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, avevano annunciato la nascita del Movimento 5 stelle.

Erano anni che il comico Beppe Grillo portava avanti tramite il suo blog battaglie simili a quelle promosse da Stella e Rizzo, come ad esempio la campagna “Parlamento pulito” iniziata nel 2005 per chiedere una legge che impedisse ai condannati di essere eletti in parlamento. Nel maggio del 2007 aveva ospitato una delle prime interviste ai due giornalisti per parlare della Casta e a settembre aveva organizzato a Bologna e in decine di altre città una manifestazione di enorme successo, il V-Day, il cui scopo era la raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare per vietare la candidatura in parlamento ai condannati, inserire un limite di due legislature e ripristinare il voto di preferenza.

L’antipolitica all’epoca non era ancora la principale occupazione di Grillo. Negli anni aveva portato avanti battaglie per le energie rinnovabili e la tutela dei beni comuni, come acqua, aria e paesaggi, contro le grandi aziende protagoniste di scandali politici e finanziari, come Parmalat e Telecom, e a favore della libertà di internet. Il secondo V-Day, un anno dopo il primo, è stato dedicato alla stampa e ai suoi privilegi, e ha avuto molto meno successo del primo. I dodici punti fondamentali del Movimento, decisi con Casaleggio nel 2009, non nominavano mai la casta e i costi della politica. Non stupisce che Stella non abbia visto nel nuovo movimento l’alfiere predestinato a incarnare la sua battaglia.

Nel frattempo, l’Italia era entrata in quella che allora era la peggiore recessione economica dalla Seconda guerra mondiale. Il governo Berlusconi era caduto e in molti volevano vedere puniti i responsabili della crisi che aveva riportato i loro redditi ai livelli degli anni Novanta e fatto raddoppiare la povertà nel paese. Come aveva fatto Montezemolo prima di lui, il nuovo presidente del Consiglio, Mario Monti, ex rettore dell’università Bocconi chiamato alla guida di un governo tecnico di emergenza, ha pensato di individuare i responsabili nei politici e nelle loro malefatte.

Con la sua prima manovra economica, approvata in tutta fretta negli ultimi giorni del 2011, ha chiesto un enorme sacrificio agli italiani: 13 miliardi di tagli alla spesa, soprattutto agli enti locali, e 18 miliardi di aumenti di tasse. Per giustificarli ha annunciato che anche i politici avrebbero presto pagato un prezzo altrettanto salato. «È bello che ci siano crociate contro i privilegi della casta», ha detto nel gennaio del 2012 di fronte ai più importanti industriali e finanzieri italiani riuniti alla Borsa di Milano.

Nei mesi successivi il suo governo ha tagliato le pensioni, ha liberalizzato il lavoro e ha introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio. Ma oltre a un farraginoso inizio di abolizione delle province, sui costi della politica il governo Monti non ha ottenuto molto. «Bisogna togliere i privilegi alla casta, ma i partiti di questa maggioranza si sono tutelati», ha detto in un’intervista alla fine del 2012, quando era oramai dimissionario. E annunciando la sua candidatura alle elezioni dell’anno successivo, dirà che la prossima volta avrebbe fatto meglio.

Alle elezioni del 2013, come Veltroni prima di lui, Monti è andato incontro a una sconfitta. Ha ottenuto poco più del 10 per cento dei voti, non abbastanza per formare una coalizione con il centrosinistra o con il centrodestra. Chi invece è andato oltre tutte le aspettative è stato il Movimento 5 stelle, che, dopo un’insolita campagna elettorale lontano dalle televisioni in cui Grillo aveva promesso di non allearsi con nessun partito, ha raccolto il 25 per cento dei voti ed è diventato il secondo partito a poca distanza dal Pd, che ha preso circa il 26 per cento.

La metamorfosi di Grillo
Il suo programma era vasto e in gran parte dedicato all’ambiente e alla democrazia dal basso, ma i temi anti casta stavano conquistando sempre più spazio. Nel 2010, l’inno non ufficiale e autoreferenziale del Movimento, Ho un Grillo per la testa, è stato sostituito da Ognuno vale uno, in cui uno dei versi recita «non siamo un partito, non siamo la casta, siamo cittadini punto e basta». Pochi giorni prima del voto, Grillo ha annunciato dalla sua pagina Facebook: «Apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno».

Il buon risultato alle elezioni del 2013 e la nascita di un numeroso gruppo parlamentare, 108 deputati e 54 senatori, ha inasprito i toni della campagna. Il rifiuto di allearsi con il Pd ha costretto il Movimento all’opposizione, dove non aveva modo di portare avanti la sua agenda ambientalista, mentre su molte questioni delicate, dall’immigrazione ai diritti civili, parlamentari, leader e attivisti si sono spesso rivelati divisi tra loro. Un terreno più sicuro sul quale cercare di ottenere visibilità erano le azioni simboliche contro i costi della politica. La restituzione del finanziamento pubblico, la creazione di un fondo dove versare una parte dello stipendio a cui rinunciavano i parlamentari, le proteste eclatanti, come occupare i banchi del governo o salire sul tetto del parlamento, sono diventati presto la linfa del Movimento e uno dei pochi modi che il partito aveva per far parlare di sé.

Com’era accaduto con Monti, i governi in carica, spaventati dal consenso, anche elettorale, della retorica anti casta, hanno provato a cavalcare l’indignazione popolare. Quello guidato da Enrico Letta ha abolito i rimborsi elettorali e ai partiti, uno dei cavalli di battaglia di Rizzo e Stella. Il successore di Letta, il sindaco di Firenze “rottamatore”, Matteo Renzi, ha avuto una posizione ancora più radicale. Nel 2012, dopo il successo di Grillo alle elezioni amministrative, ha detto che per fermare il Movimento 5 Stelle sarebbe bastato «un vero e severo piano anti casta». Alle primarie del 2012, quelle che ha perso contro Pier Luigi Bersani, aveva promesso: «Se vinciamo, la prima cosa è dare una stretta alla casta».

Arrivato al governo, Renzi ha annunciato immediatamente la messa all’asta di decine di auto blu, un tetto agli stipendi dei manager pubblici e una riforma costituzionale che avrebbe abolito il Senato e ridotto di quasi un terzo le “poltrone” dei politici. Alle europee del 2014, i risultati ottimi del Pd, che ha superato il 40 per cento, e il calo per il Movimento 5 stelle, che è sceso al 21, sembravano dare ragione alla sua strategia. Renzi non ha cambiato idea nemmeno quando il Pd ha subito un brusco calo alle successive regionali, quando è tornato al 25 per cento, e poi alle amministrative, quando il partito ha perso a Roma e Torino.

Durante la lunga campagna per il referendum sulla riforma costituzionale approvata dal suo governo, Renzi ha continuato con gli slogan anti casta. La sua riforma, diceva, tagliava poltrone inutili e riduceva i costi della politica. Chi si opponeva avrebbe dovuto avere molto coraggio per andare a dire agli elettori «non abbiamo voluto dare un segnale alla casta, abbiamo voluto mantenere la politica com’era mentre la disoccupazione giovanile è al 42,6 per cento». Stella e Rizzo si sono dichiarati favorevoli alla riforma, ma il Movimento 5 stelle, insieme a quasi tutti gli altri partiti, compresa una parte del Pd, si è schierato contro. Renzi è stato battuto e la riforma è stata respinta dal 60 per cento degli italiani.

La risacca della marea anti casta che Stella credeva di aver visto nel 2009 è iniziata probabilmente durante la lunga campagna referendaria, quando almeno sui giornali e tra i partiti è tornata a diffondersi l’idea che le istituzioni democratiche dovevano essere trattate con maggior considerazione e non come un semplice costo da tagliare fino all’osso. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2018 la casta e i costi della politica sono stati un tema secondario.

Il nuovo leader del Movimento, Luigi Di Maio, si è presentato come un centrista rassicurante e ha addirittura accolto di buon grado i paragoni con politici democristiani che gli hanno rivolto i giornalisti (Bruno Vespa nel suo libro del 2017 Soli al comando lo aveva definito un «giovane Andreotti»). Più che di tagli alla politica, Di Maio ha preferito parlare di reddito di cittadinanza e di immigrazione. Tra i 20 punti del programma del Movimento non era previsto il taglio dei parlamentari e i costi della politica arrivavano solo al quinto punto.

Un’eccezione italiana?
Di riforma costituzionale per tagliare i parlamentari si è cominciato a parlare soltanto successivamente, quando il Movimento si è accordato per formare un governo con la Lega. E la sua approvazione non è stata esattamente una priorità né nella comunicazione né nell’azione politica del Movimento. Nel frattempo, la maggioranza è cambiata e il partito, in grave crisi di consensi, ne ha imposto l’approvazione come condizione fondamentale per l’accordo con il Pd. Ma questo rigurgito anti casta non ha salvato il Movimento 5 stelle da un inesorabile declino. Alle elezioni europee dell’anno scorso è sceso al 17 per cento, otto punti in meno delle politiche del 2013 e quasi la metà dei voti raccolti nelle elezioni del 2018.

In seguito a una serie di sconfitte locali in Abruzzo, Basilicata, Sardegna, Piemonte e Umbria e poi al pessimo risultato delle europee del maggio 2019, quando il Movimento è arrivato solo al 17 per cento, Di Maio è stato costretto a lasciare il ruolo di capo politico. Oggi, a poche ore da quella che in teoria dovrebbe essere la sua più grande vittoria, il Movimento è allo sbando, con un leader ad interim, ed è dato dagli ultimi sondaggi intorno al 15 per cento e continuamente al centro di scandali in cui i suoi stessi membri sono accusati di non rispettare le sue rigide norme di etica interna, come ad esempio la deroga al limite di due mandati per consiglieri comunali e sindaci.

Il Movimento 5 stelle sembra avviato verso il cimitero che ospita tutti i leader e i partiti prima di lui che hanno cercato di cavalcare il tema della lotta alla casta. Da Montezemolo, la cui avventura politica non è mai decollata, a Mario Monti, che ha tentato di proseguirla, è stato sconfitto e ora fa il consulente per l’Organizzazione mondiale della sanità, concedendosi ogni tanto qualche livorosa incursione nei talk show italiani. Da Walter Veltroni, che ha portato nel centrosinistra la lotta alla casta e ora è diventato un regista e scrittore, fino a Matteo Renzi che dal Pd del 40 per cento è adesso il leader di un piccolo partito che rischia di non superare la soglia di sbarramento.

Viene quasi da chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nell’assunto fondamentale dell’intero dibattito sulla casta. E cioè che l’eccezionalità italiana non risieda davvero in una classe politica corrotta e in un basso livello di etica pubblica. Dopotutto, sfiducia nella politica, episodi di corruzione, comparsa di leader o partiti antipolitici e populisti, sono una caratteristica comune di tutto il mondo sviluppato. L’avversione alla casta in Italia non sembra affatto essere una questione speciale, prioritaria, in grado di far dimenticare tutto il resto, come hanno sperimentato i tanti che, come Monti, Renzi e Grillo, con l’antipolitica hanno provato a giustificare agli occhi degli elettori qualsiasi politica, o l’assenza di politiche.

Ma non sarebbe nemmeno giusto sostenere che a tredici anni dall’uscita della Casta la politica italiana non sia cambiata. Rispetto al 2007 oggi ci sono meno dipendenti pubblici, meno partiti, meno finanziamenti pubblici, meno ministri e sottosegretari, meno auto blu, meno megastipendi per i manager pubblici e presto, con ogni probabilità, ci saranno molti meno parlamentari. Caso praticamente unico nel mondo sviluppato, dal 2013 l’Italia ha un parlamento con l’età media più bassa di quella della popolazione. Se tredici anni fa i governi cadevano o sopravvivevano grazie alle campagne acquisti di deputati e senatori e il parlamento votava norme per ostacolare le indagini e cancellare i reati, oggi la peggior accusa che viene rivolta a deputati e senatori e di non essere abbastanza preparati e di non aver studiato a lungo, e se sono ancora in corso campagne acquisti, di certo non sono ancora emerse. Quello che sembra più in discussione è se nel complesso la democrazia italiana sia più in salute di prima. Su questo anche Rizzo ha i suoi dubbi.

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