Gli applausi che giorni fa la platea di Fratelli d'Italia a Pescara ha riservato a Enrico Berlinguer, su invito del presidente del Senato Ignazio La Russa, sono qualcosa di più della concessione dell'onore delle armi all'avversario che non c'è più (da quarant'anni). E non sono soltanto il nascondimento della vera finalità della standing ovation, acclamare non il segretario del Pci scomparso a Padova ma il segretario del Msi che gli rese omaggio, Giorgio Almirante. Sono il segno che c'è una rilettura da fare sugli ultimi trent'anni di storia nazionale.

Cominciati nel 1994 con la vittoria di Forza Italia, prima alle elezioni politiche, poi alle elezioni europee, quando Silvio Berlusconi appena diventato presidente del Consiglio spinse il partito oltre quota 30 per cento, lui sfiorò i tre milioni di preferenze. È il modello di riferimento di Giorgia Meloni.

Portare Fratelli d'Italia vicino al trenta per cento e proporsi come la nuova leader nazionale: dopo Silvio Berlusconi ecco Giorgia Meloni detta Giorgia (neppure Berlusconi ha mai chiesto di scrivere il nome Silvio sulla scheda elettorale). Il modello Berlusconi convive con il giudizio ruvidamente negativo che Meloni e i suoi danno sugli ultimi trent'anni.

Gli applausi dei Fratelli d'Italia a Berlinguer, ma soprattutto ad Almirante, hanno preceduto di pochi giorni la condanna in primo grado dell'ex leader Gianfranco Fini, uno dei protagonisti del trentennio, rimasto invischiato nell'affaire della casa di Montecarlo.

Condanna non troppo severa, i reati più gravi erano già saltati, ma pesante sul piano simbolico e politico, perché Fini nell'immaginario dell'attuale gruppo dirigente di FdI è considerato il responsabile della svendita del patrimonio della destra post-fascista italiana, non soltanto immobiliare. Eppure non ci sarebbero oggi La Russa seconda carica dello Stato, Urso ministro e soprattutto Meloni premier senza la svolta di Fiuggi e il passaggio dalla destra fascista di Almirante alla destra conservatrice di Fini.

Nessuno tra i beneficiati, però, è disposto a riconoscerlo: anzi, svolte e abiure sono trattate alla stregua di tradimenti che hanno portato quasi all'estinzione il partito. Applaudire Almirante e dimenticare Fini, significa mettere tra parentesi il trentennio 1994-2024, tornare alle «radici più profonde che non gelano mai».

A sinistra la questione è più complessa. La segretaria del Pd Elly Schlein ha festeggiato ieri il suo compleanno con il Pse a Berlino, è nata un anno dopo la morte di Berlinguer. Mettere il leader scomparso nella nuova tessera del partito può essere un'operazione di marketing, ma non è la nostalgia di un passato mai conosciuto. Semmai strappa Berlinguer al suo destino di icona pop tramandata dalla canzone di Giorgio Gaber («Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona»), il santo laico della questione morale, per restituirlo al profilo storico di politico, con gli errori e le sconfitte, ma con un'idea di società. Quella che in questi trent'anni è mancata.

Nessuno mette in discussione i passaggi chiave che negli anni Novanta-Duemila hanno portato alla nascita del Pd. Qui il ripensamento è sulla fragilità con cui avvennero quei passaggi, con l'opportunismo di dirigenti pronti a tutto pur di restare in sella. «Il Pd ha radici profonde nella storia del Paese o è una invenzione estemporanea e contingente senza radici e perciò senza futuro?», si chiedeva uno dei fondatori, Pietro Scoppola già nel 2007. Si sono avvicendate leadership confuse e opportuniste che predicavano la dismissione delle vecchie identità, la modernità vacua e spensierata che inseguiva rivoluzioni liberali, partiti della nazione, senza un'idea sul Paese, senza progetto. L'unica in trent'anni è stata gettata al vento, si chiamava Ulivo. Prima e dopo c'è stato il deserto.

E il deserto ha prodotto una giusta richiesta di rappresentanza, ma anche separazione, scissione dalla realtà, rabbia, rancore. Tutto il resto è stato catalogato sotto la voce riformismo, che è una parola nobile della politica, significa cambiamento radicale mentre è stata trasformata nell’accomodamento all'esistente.

Quello che ora difendono politici, giornalisti, intellettuali, in gran parte cresciuti nel trentennio del vuoto. Per la destra, il trentennio che parte negli anni Novanta è la storia di una successione spezzata, Almirante-Berlusconi-Meloni, saltando Fini. Per la sinistra il ripensamento sugli ultimi trent'anni è anche la possibilità di una ricostruzione.

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