Per capire perché Matteo Renzi non si fida più di Giuseppe Conte, e come mai da settimane abbia deciso di provare a sostituirlo o – in secundis – di depotenziarlo attraverso un rimpasto di governo, bisogna fare un passo indietro. E risalire all’origine dell’astio profondo che divide l’ex premier dall’avvocato di Volturara Appula.

Davanti ai continui penultimatum del leader di Italia viva in merito al piano «senz’anima» del Recovery fund e ai miliardi inutilizzati del Mes, i renzologi più esperti danno spiegazioni politiche classiche («tira la corda perché vuole più poltrone») o di tipo narcisistico-caratteriali («Matteo si considera il più bravo e di conseguenza valuta come incapace qualsiasi presidente del Consiglio a lui alternativo»). Entrambe le esegesi non sono errate. Ma insufficienti per comprendere l’entità della partita in gioco e le mosse del leader che minaccia di far saltare (dopo quello di Enrico Letta) un altro esecutivo “amico” che lui stesso ha contribuito a far nascere.

Visita a sorpresa

Gli inizi della acrimonia che Renzi nutre per Conte hanno una data precisa, e riguardano un tema specifico: la gestione dei servizi segreti e le modalità con cui il premier e i suoi sodali hanno coordinato alcuni dossier sensibili. Tutto comincia il 30 settembre del 2019, quando il senatore di Rignano legge la rassegna stampa: il New York Times dà conto, per la prima volta, di incontri segreti tra il ministro della Giustizia americano William Barr e i vertici dei nostri servizi segreti. Due meeting avvenuti a Ferragosto, a pochi giorni dalla nascita del Conte bis e dell’endorsement via Twitter di Trump (il celebre “Giuseppi”), e il successivo 27 settembre, a tre settimane dalla fiducia ottenuta alle camere.

Qual è il motivo dell’inconsueto viaggio dell’attorney general Barr, un fedelissimo di Trump, a Roma? Ottenere dai vertici delle nostre agenzia di sicurezza, Dis, Aise e Aisi, informazioni necessarie a una delicata inchiesta penale. Un’investigazione che, partendo dall’indagine “Russiagate” nella quale Trump era sospettato di aver avuto rapporti con i russi durante la campagna per le presidenziali del 2016, ipotizzava un ribaltamento dei fatti. Barr spiega a Conte e alla nostra intelligence che il magnate populista non sarebbe il carnefice, ma la vittima di una cospirazione ordita da pezzi della Cia e dell’Fbi vicini all’amministrazione Obama, per fare apparire Trump colluso a Mosca. Obiettivo: impedire la sua legittima elezione o, in secondo ordine, permettere l’impeachment in caso di vittoria.

Secondo l’ipotesi accusatoria di Barr e del procuratore generale John Durham l’Italia è il centro del possibile complotto: Joseph Mifsud, un oscuro professore maltese di cui si ipotizzarono legami con la Link University, l’Fbi, l’intelligence italiana e britannica, avrebbe teso una trappola a un membro del comitato elettorale di Trump, George Papadopoulos, offrendogli le mail hackerate di Hillary Clinton.

Ebbene proprio Papadopoulos è il teste chiave della contro-inchiesta di Barr. Ed è sempre Papadopoulos che qualche giorno dopo le rivelazioni del New York Times tira in ballo in un’intervista il nome di Renzi, nel 2016 a capo di un governo che avrebbe di fatto avallato la macchinazione usando Mifsud e i servizi. «Penso che Renzi sia stato usato da Obama per attuare questo colpo basso nei confronti di Trump» dice Papadopoulos alla Verità, «a causa di questa storia la sua carriera politica verrà distrutta».

La rappresaglia

Il numero uno di Italia viva ha subito bollato le dichiarazioni del consigliere di Trump come «una barzelletta» chiedendo un milione di euro di danni, ma non ha mai digerito la vicenda, né le manovre di Conte e del suo referente nei servizi, il direttore del Dis, Gennaro Vecchione. I sospetti di Renzi, forse immeritati, di un uso personalistico dei nostri servizi da parte di palazzo Chigi cominciano allora. Così come la richiesta insistente del segretario di Iv, ripetuta in lettere ai giornali e ieri al Senato, di lasciare l’autorità delegata a «professionisti competenti».

La lista degli errori dell’avvocato del popolo, secondo Renzi, sarebbe lunghissima. Autorizzando il primo incontro tra Barr e Vecchione senza che nessun altra istituzione sapesse nulla delle richieste americane (i capi dell’Aise e dell’Aisi Luciano Carta e Mario Parente furono chiamati solo per presenziare al secondo colloquio; entrambi non solo non collaborarono, ma non nascosero il loro imbarazzo per la vicenda), Conte avrebbe a suo parere anteposto gli interessi personali a quelli nazionali. «Una scelta inaccettabile, fatta solo per ottenere la benemerenza di Trump che da lì a poco lo incoronò per un secondo mandato», spiega un colonnello renziano che milita ancora nel Partito democratico.

Anche se Vecchione ha sempre negato anomalie o do ut des e parlato di «semplice cooperazione tra apparati di stati amici», e se Conte era probabilmente ignaro che il testimone chiave della contro-inchiesta di Barr potesse poi coinvolgere nello scandalo un ex presidente del Consiglio italiano, Renzi non ha mai perdonato, e da oltre un anno lavora alla rappresaglia.

Ora il terreno è fertile. Perché il malcontento nei confronti del duo Conte-Vecchione si è via via accresciuto, coinvolgendo pezzi importanti della maggioranza e del deep state stanchi dell’accentramento imposto dall’avvocato prestato alla politica, secondo molti privo – sul tema della pubblica sicurezza – dell’esperienza e della cultura democratico-istituzionale necessaria a gestire pratiche di rilievo internazionale.

Più di un boiardo e qualche grand commis si lamenta senza più remore del peso eccessivo che Vecchione avrebbe nelle decisioni strategiche (è un fatto, va detto, che il generale non sia benvoluto tra i vertici militari perché promosso a discapito di chi aveva più stellette ed esperienza di lui). Mentre gli alleati Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti si domandano da mesi come mai le nomine dei vicedirettori all’Aise (in pole ci sono Luigi Della Volpe e Carlo Massagli, consigliere del premier) e all’Aisi (Carlo De Donno potrebbe avere la meglio su Massimo Aimola) continuino a tardare.

In ultimo, hanno irritato alcune voci recenti secondo cui Vecchione avrebbe girato via WhatsApp ad alcuni parlamentari il video delle Iene sulla liberazione di Silvia Romano. Un servizio in cui si ipotizzava (attraverso le dichiarazioni di una fonte, poi rivelatosi un mitomane) che non solo la ragazza poteva essere liberata prima, ma che uomini dell’Aise avrebbero pagato un riscatto più alto di quella inizialmente pattuita con i rapitori.

La fondazione fantasma

Le posizioni di Renzi hanno cominciato a far breccia tra esponenti del M5s e del Pd soprattutto a metà dello scorso novembre. Quando Conte ha inserito nella bozza della Finanziaria la creazione di nuova fondazione per la cybersicurezza. Un istituto, da finanziare da qui al 2024 con 210 milioni di euro, che sarebbe stato strumento appannaggio esclusivo del presidente del Consiglio, del Dis e – di conseguenza – del suo direttore. Al netto del merito, la faccenda ha allarmato innanzitutto per il metodo: incredibilmente nessuno sapeva nulla della fondazione e dei 13 articoli che ne definivano compiti e norme interne. Né tra i ministri, né al Copasir, né tra i vertici delle altre agenzie.

L’ipotesi è stata accantonata dopo le proteste di mezzo arco parlamentare e dei dirigenti di Aisi e Aise, ma ha acceso un’altra volta un faro sul modus operandi della cerchia ristretta che governa palazzo Chigi, accusata anche da esponenti non renziani della maggioranza di voler mettere, nottetempo, le mani sui delicati equilibri dei nostri apparati di sicurezza.

Conte, ha detto ieri Renzi, se vuole mantenere la poltrona ed evitare la crisi deve scrivere un piano collegiale e convincente per spendere i 209 miliardi di euro del Next generation Eu. Ma, come fosse altrettanto importante, lo ha re-invitato a mollare la presa sui servizi rinunciando all’autorità delegata. Chi è sicuro che il capo di Italia viva non stia più bluffando, sta cercando di capire qual è il punto di caduta che potrebbe placare il rignanese. I suoi amici ripetono che il sogno del loro leader sarebbe un premier nuovo di zecca, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti su tutti.

In subordine, la pace potrebbe essere firmata con un rimescolamento massiccio dell’esecutivo, che prevede differenti opzioni. Ottimale per Renzi sarebbe la nomina di un nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che prenda subito le deleghe ai servizi segreti. Ettore Rosato è il nome preferito dal “senatore semplice”, a cui non dispiacerebbe nemmeno il promoveatur ut amoveatur di uno tra Lorenzo Guerini e Luciana Lamorgese. A quel punto lui stesso o un suo sodale potrebbe sedersi al Viminale. O, meglio ancora, alla Difesa. Il ministero oggi guidato da Guerini, che ha appena nominato Teo Luzi comandante generale del carabinieri, l’anno prossimo dovrà infatti scegliere il prossimo capo di stato maggiore della Difesa, dell’esercito e dell’aeronautica.

«Non ci comprano con due poltrone, usciamo noi dal governo», ripete Renzi. Ma in molti scommettono che se le poltrone fossero più di due, e se Conte venisse messo sotto tutela e ridimensionato sul Recovery e servizi, la crisi annunciata potrebbe rientrare. In caso contrario, si vedrà chi al tavolo è il giocatore di poker migliore.

 

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