«Il risultato è storico», «Ce l'abbiamo fatta, ancora una volta», «Negli ultimi giorni molte forze si sono riunite attorno al No per colpire il governo e il sottoscritto». Quando, a metà pomeriggio, i dati del referendum scolpiscono una vittoria piena del Sì, e un’affluenza al 53,84 per cento – che non è il 68,4 del referendum del 2016 sulla riforma di Matteo Renzi, ma è un risultato in linea con la consultazione del 2006 sulla riforma Berlusconi - Luigi Di Maio si precipita davanti alle telecamere per rivendicare la vittoria al suo movimento, ma soprattutto a se stesso, vittima di un assedio immaginario a cui è scampato da vincitore. E’ vero che l’ala barricadera ha perso la sua partita. Ma a nome di Cinque stelle aveva già parlato il reggente Vito Crimi. Invece l’ex capo del movimento vuole subito rilanciarsi, dopo settimane di timori e presagi di rovina. Di Maio deve azzeccare la tempistica: meglio prendere parola prima che i dati delle regionali certifichino la sconfitta del movimento nelle regioni.

Pochi minuti dopo il segretario del Pd parla dal Nazareno. La sua è quasi una marcatura a uomo dell’alleato di governo. Rivendica al suo partito la vittoria del Sì, ma i toni sono altri: «Il Pd farà di tutto per rappresentare le preoccupazioni di chi ha votato no. Molte le sentiamo come nostre, come quelle in difesa delle istituzioni». E poi aggiunge un’osservazione che parla agli alleati ma anche moltissimo, forse soprattutto, a chi nel suo partito preparava il processo a un leader sconfitto e forse persino dimissionario: «Da quello che sembra l'alleanza di governo conferma gran parte delle aspettative che avevamo. Se i nostri alleati ci avessero dato retta l'alleanza di governo avrebbe vinto in quasi tutte le regioni. Tuttavia siamo di fronte a risultati importanti che ci rendono soddisfatti e sono la conferma che linea politica del Pd è l'unica utile».

Se non è il vincitore morale, Zingaretti è quello che esce meglio, fra i leader, dal weekend elettorale. Le previsioni di disastri non si sono rivelate vere. Sulle chat dei parlamentari gira un video con un suo comizio con la musica di Vasco Rossi “Io sono ancora qua”. Ci aveva scommesso, con una parte del gruppo dirigente, per questo aveva fatto sapere che sarebbe stato lui in ogni caso a commentare il risultato, «ci metterò la faccia». Un azzardo, forse il primo vero della sua segreteria, dopo la nascita del governo giallorosso. Quando arriva alla sede di Largo del Nazareno trova già i ministri Dario Franceschini e Peppe Provenzano, e con loro il tesoriere e responsabile giustizia Walter Verini, giornalista e già portavoce di Walter Veltroni, il primo segretario del Pd che si dimise nel 2009 proprio dopo una sconfitta cocente in Sardegna. Quando il segretario compare di fronte ai giornalisti ha già qualche certezza sul risultato delle regioni contese, quella da cui passa la linea del Piave della sua segreteria. Toscana, Puglia, Campania e Puglia restano al centrosinistra, le Marche passano a destra ed è un risultato storico. Ma, se unite come lui aveva a più riprese invocato, le forze della maggioranza avrebbero tenuto anche quella regione. Va male in Liguria, proprio l’unica regione in cui Pd e Cinque stelle erano riusciti a mettersi d’accordo su un candidato. Ma la vicenda di Ferruccio Sansa fa comunque storia a sé: una scelta travagliata, a cui entrambe le forze politiche si sono rassegnate tardivamente.

Ma la cosa che soddisfa di più il segretario è aver ragione sull’aver tenuto il Pd sul Sì al referendum, senza cedere alle richieste di lasciare libertà di voto: il rischio era quello di consegnare quasi il 70 per cento dell’elettorato interamente alle ragioni dell’antipolitica sbandierate dai Cinque stelle. E’ vero i No alla riforma espressi in parlamento sono appena il 2 per cento contro l’oltre 30 dei votanti nel paese, come ricordano puntigliosamente i parlamentari del No, ma la vittoria resta piena. E non si è neanche avverata l’eventualità che le regioni al voto trascinassero il Sì, o l’affluenza, rispetto a quelle in cui non si aprivano le urne delle amministrative.

Da ieri pomeriggio nel Pd tira tutta un’altra aria. Si allontana di colpo la prospettiva dell’opa sulla segreteria da parte di Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna, intorno al quale l’ala riformista ormai ha capito di aver perso la sua occasione.

Anche Matteo Renzi ha perso la sua scommessa. La lista di Italia viva in Toscana, la regione che doveva essere la culla del nuovo partito con un candidato molto compiacente, nel pomeriggio non ha ancora acciuffato il 5 per cento, e qui era in coalizione anche con Azione di Carlo Calenda (la battuta di arresto è anche per lui); in Liguria il candidato Aristide Massardo fa performance simili, il candidato Ivan Scalfarotto in Puglia si ferma anche più in basso. «Siamo indispensabili per vincere in Toscana», assicura Luciano Nobili, luogotenente renziano. Ma bisogna la consolazione è magra.

La nottata è passata per la maggioranza giallorossa, ma non è detto che il risveglio sia dei più tranquilli. Il risultato pieno del Sì al referendum costituzionale ha allungato la vita al governo. La destra accusa il colpo, il leader della Lega Matteo Salvini resta a lungo in silenzio, la possibilità di chiedere le dimissioni del governo e le elezioni anticipate sfuma. La vittoria annunciata di Luca Zaia in Veneto è anche al di sopra delle aspettative, e certo costituisce una spina nel fianco alla sua leadership appannata. La proiezione nazionale di una lista a nome del presidente veneto affronterebbe anche uno sbarramento nazionale: è solo una suggestione, ma certo non migliora l’umore del leader leghista. E la slavina prevista con insistenza dai sondaggi, quelli veri e quelli falsi circolati via Whatsapp alla vigilia e anche durante il voto, è alle spalle. Ma ora dovrà fare i conti con nuovi equilibri nella maggioranza.

Il premier ostenta tranquillità ed eleganza. Fa sapere di voler lasciare alle forze politiche il commento sul voto. Oggi deve comparire davanti al Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza, per chiarire la vicenda delle nomine ai vertici dei Servizi segreti che due settimane ha mandato in rivolta una parte dei Cinque stelle e fatto traballare la maggioranza. La sua permanenza a Palazzo Chigi è più sicura, ma da ora in avanti non è detto che la sua navigazione sia più tranquilla.

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