È arrivata, attesa da molti, la decisione della Corte di Cassazione secondo la quale il «“saluto romano” è un rituale evocativo della gestualità propria del disciolto partito fascista» e dunque può integrare il reato previsto dall’art. 5 della cosiddetta legge Scelba (n. 645 del 1952). Si tratta di una decisione di buon senso, che è difficile contestare senza pre-comprensioni ideologiche.

La semplice lettura della disposizione non lascia alcun adito a interpretazioni di segno contrario. Quando si legge che è sanzionato, con pena tenuissima peraltro, «chiunque con parole, gesti o in qualunque altro modo compie pubblicamente manifestazioni usuali al disciolto partito fascista», si capisce subito che chi l’ha scritta aveva in mente proprio quello: il saluto romano.

E se anche quel saluto non fosse accompagnato da una specifica volontà di ricostituire il disciolto partito fascista (il che forse farebbe venir meno l’incriminazione ai sensi della legge del 1952), il fatto potrebbe comunque rilevare penalmente ai sensi della legge Mancino (n. 122 del 1993), che vieta le manifestazioni usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

La legge Mancino e la legge Scelba, di cui la Cassazione chiede l’applicazione, sono due dispositivi di difesa della democrazia. Perché la democrazia può e deve essere tollerante con tutti, e verso qualsiasi manifestazione del pensiero; ma non può esserlo verso chi aggredisce direttamente sé stessa. Contro queste aggressioni è chiamata a difendersi, pur con una mano dietro alla schiena, per non tradire sé stessa.

“Mai più” fascismo

La prima di queste aggressioni, contro la quale la difesa va tenuta altissima, è quella di matrice fascista. È vero, infatti, che le Costituzioni contengono un “non ancora”, indicano un orizzonte. Ma sono anche un “mai più”. E nel “mai più” della nostra Costituzione c’è anzitutto il fascismo; non solo nella sua forma storica – con la nomenclatura, i gagliardetti, le tessere, di quell’esperienza terminata nel 1943 –, ma nella sua forma sostanziale.

E se nel testo costituzionale non ve n’è alcun ripudio espresso – a parte il divieto di riorganizzazione del Partito nazionale fascista, nella sua forma storica appunto, tanto che la norma è tra le disposizioni transitorie, come a dire che quello era una rimasuglio del passato che sarebbe durata ancora poco – è per la fiducia, forse un po’ naive, dei costituenti che la forma sostanziale del fascismo avrebbe potuto essere neutralizzata in positivo, con un’iniezione di valori democratici.

Il fascismo non è espressamente nominato – per così dire – per non sporcarsene neanche la bocca; ma la sostanza non cambia: perché tutti i valori che la Costituzione pone a fondamento del nuovo ordinamento sono essenzialmente il negativo dei disvalori fascisti. È per questo che anche il minimo varco aperto al fascismo rappresenta la negazione delle fondamenta del nuovo ordine costituzionale.

Nessun equivoco

Certo, si è tenuto a lungo la mano dietro alla schiena, con questo nemico. È avvenuto per ragioni di pacificazione sociale e di contenimento del fenomeno che, se non condividere, si possono almeno comprendere. Ma c’è una cosa cui prestare attenzione: a non lasciare le ragioni di pacificazione sociale rischino di essere neanche lontanamente confuse con complicità o anche solo ammiccamenti.

Se, a tenere la mano dietro alla schiena, è un potere politico di cui non si può sospettare alcuna contiguità con ambienti in cui covano le nostalgie fasciste con il loro fetore, le ragioni di pacificazione possono convincere. Ma quando al potere c’è chi da quegli ambienti non è poi così lontano (se non altro perché, almeno nel 2009, l’attuale leader del partito di maggioranza ad Acca Larentia c’era stata personalmente), è necessario che si sgombri il campo da ogni equivoco di ammiccamento o di cameratesca indulgenza.

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