Per prima, in ordine di tempo, è arrivata la risposta gelida del presidente del Consiglio sulla cosiddetta dote per i diciottenni proposta da Enrico Letta finanziata dall’1 per cento dei ricchi nella tassa di successione dei patrimoni sopra i 5 milioni. Poi c’è stata la buriana, capeggiata dal giornale di Confindustria, su una nuova modulazione del blocco dei licenziamenti proposta dal ministro del Lavoro Andrea Orlando come strumento in più per le aziende, peraltro preannunciato ai ministri, agli uffici, e nel corso della conferenza stampa a fianco dello stesso Draghi. Ai suoi Orlando parla di «un’aggressione incredibile per una norma che aveva lo scopo di ridurre parzialmente l’impatto dei licenziamenti a giugno, nel solo interesse di difendere i lavoratori». La reazione è sotto gli occhi di tutti. All’uno-due, indubbiamente incassato dal Pd in questi giorni, i vertici del Pd aggiungono il tentativo in corso di forzare sulla semplificazione del codice degli appalti, in un momento in cui sono molte le voci autorevoli che mettono in guardia sugli interessi della criminalità sui soldi che circolano per la ripresa del paese.

«Basta unire i puntini», è il consiglio che si riceve. Messaggio ricevuto? Il Pd non può che prendere atto dello schieramento di forze in campo contro le sue proposte e contro il suo ruolo nel governo. Nessuno grida al complotto, naturalmente. Ma c’è la consapevolezza che correggere la rotta tenuta negli scorsi decenni, per il segretario del Pd non sarà un pranzo di gala. Reazioni di questo genere erano previste, ma la misura è sorprendente. Enrico Letta ne ragiona già nel libro Anima e cacciavite. Per ricostruire l’Italia, in uscita domani per i tipi di Solferino: «Per anni la sinistra europea ha messo in secondo piano lavoro, protezione sociale, forme di sostegno al reddito. In poche parole, cura e accompagnamento a chi era rimasto indietro. Perché questo abbaglio nei partiti socialdemocratici?  Per la difficoltà a uscire dalla nostra zona di comfort ideologica: troppo a lungo siamo rimasti innamorati di uno schema brillante e che ritenevamo vincente, quello del riformismo anni Novanta. Su questo anche in Italia non si è fatta abbastanza autocritica».

Ma il messaggio è stato ricevuto. E Letta, nei conversari con il gruppo dirigente, risponde con la consapevolezza della fase che attraversa il suo partito nel governo: «Nulla è più pericoloso in questo momento dello stare fermi. Difficile capire come tanta classe dirigente, anche di sinistra riformista, non percepisca l’urgenza di queste riflessioni». Non è in discussione l’appoggio a Draghi, anzi semmai, sostiene il vicesegretario Pd Peppe Provenzano «oggi più che mai dobbiamo riaffermare il ruolo del Pd nel governo: noi sosteniamo le riforme, a differenza di Salvini. A disagio è lui, noi proviamo ad alzare l’asticella». Il punto è fare la propria parte, cioè quella di un partito della famiglia socialista e democratica, e di una guida che ha fatto dello studio dei modelli europei la ragione della sua vita precendente. Al Nazareno la riflessione che circola è di questo tenore: «Ci sono due movimenti uguali e contrari che scuotono la politica: da un lato la forte spinta verso posizioni più progressiste e verso la redistribuzione in tanti paesi europei, negli Stati Uniti, negli organismi internazionali. Dall’altro, la forte spinta verso destra di una parte dell’Italia. A questa spinta dobbiamo essere in grado di porre argini moderni e coraggiosi. A maggior ragione perché la destra italiana ha il volto nazionalista e populista di Meloni e Salvini». Letta non si è spostato a sinistra, viene replicato a chi gli obietta che tutto ci si aspettava dal nuovo segretario dem tranne che la parola «tasse». E’ il «quadro politico» ad essersi spostato a destra: basta accennare a una blanda forma di ridistribuzione che un pezzo importante della classe dirigente italiana scatta a muro, con un endorsemente preventivo al governo delle destre. 

In soccorso del suo allievo è arrivato Romano Prodi che su RaiTre ha pronunciato parole di equilibrio più che di difesa: «Quella idea di Letta è una cosa scritta in un libro, hanno fatto un gran casino su una cosa ovvia, non è una proposta di governo. Ne hanno fatto un incidente per incastrare Letta». Prodi divide la questione in due parti: quella della tassazione «non è una cosa nuova» e cita una sua vecchia proposta e naturalmente anche il presidente Einaudi. La seconda parte è la proposta concreta, su cui Prodi ha i suoi dubbi, «Diecimila euro dati così», rischiano di essere «una dote buttata», dice, «sono d’accordissimo che sia a favore dei giovani ma più con sistema articolati di aiuti a corsi di studio, borse di studio». Ma il punto, per Prodi, è aver «aperto la discussione su equità e ascensore sociale». C’è spazio per questa riflessione nel lavoro del governo?

La domanda è parallela a un’altra, ed è una questione tutta dentro il Pd. In queste ore, sulle proposte di Letta e di Orlando, si può leggere anche lo scompaginamento delle correnti interne. Oltre alle tante, ormai troppe sinistre interne a favore di un’idea di ridistribuzione, si è schierata per il sì la presidente dei deputati Debora Serracchiani, vicina a Graziano Delrio, ma anche alcuni esponenti di Base riformista, come Alessandro Alfieri e Enrico Borghi. Fino alle parole chiare di Elisabetta Gualmini, l’eurodeputata che pure alle primarie di Bologna sostiene la renziana Isabella Conti. Si può intravedere quello che viene definito un «processo di rapporti politici al di là del correntismo» contro il quale Letta non ha neanche più bisogno di intervenire. Non sarà una passeggiata di salute il riposizionamento del Pd, per il quale il segretario sa di avere tempo fino alle amministrative. Nel frattempo si aprono le partite del Quirinale e delle nomine: i due Matteo, Salvini e Renzi, hanno tutto l’interesse a rendere marginale il ruolo del Pd. E chi in queste ore è rimasto acquattato, fra i notabili dem, è evidentemente chi si prepara a fare da spettatore del fallimento del nuovo Pd, puntando al tavolo del dopo. Come sempre.

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