Nel giorno in cui Ilaria Salis viene finalmente scarcerata dai domiciliari in Ungheria, e si appresta alla sua nuova vita di europarlamentare, il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti si vede invece confermare il carcere domiciliare. Due vicende distanti migliaia di chilometri e non appaiabili in uno stesso ragionamento, se non in caso di confusione mentale.

Eppure Daniela Santanchè ha pubblicato sui social una sua “riflessione” che tiene insieme le due storie: «Toti ai domiciliari. Salis libera. Indovinate chi è di sinistra». Ora, va detto che la ministra del Turismo ha sufficienti guai giudiziari in proprio da renderle consigliabile, almeno da chi le è buon amico, un po’ di compostezza sul tema; e va aggiunto pure che nel governo la ministra è sempre più isolata, e così nel suo partito, dove da tempo non poche voci sperano, riservatamente, «in un suo passo indietro per questioni di opportunità» (lo ha fatto pubblicamente persino la vicedirettrice del Secolo, Annalisa Terranova, a titolo personale, ma c’è motivo di credere che la sua non fosse una voce dal sen sfuggita).

Resta che il post ha il merito di svelare una malafede che circola come un venticello nella destra di governo. Per il quale ieri è stata una giornata agrodolce: le due tegole – Salis e Toti – sono arrivate mentre si svolgeva un G7 progettato come un trionfo internazionale della premier e concretizzatosi invece in maniera un po’ meno smagliante.

Salis può tornare in Italia

È comprensibile e condivisibile l’entusiasmo di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli nell’annunciare la notizia della liberazione dell’insegnante di Monza, stravotata nelle liste rossoverdi per Bruxelles. In realtà la scelta del giudice ungherese è un atto dovuto, l’ultima ansia era quella per i tempi della comunicazione dell’avvenuta elezione. L’aveva espressa Roberto Salis la notte stessa dell’elezione, e con toni persino sgradevoli verso Giorgia Meloni (aveva alluso a lei parlando del governo di «Nano Mammolo», non bello). Del resto la famiglia Salis ha sempre accusato il governo italiano di non aver fatto abbastanza per il trasferimento della figlia in Italia. Alla fine erano arrivati i domiciliari a Budapest. Ma le garanzie per la persona di Ilaria sono arrivate solo grazie alla felice scelta di Avs di candidarla. E di farle una campagna martellante, per la liberazione e per il diritto a un trattamento civile e a un giusto processo. Meloni è apparsa molto fredda su questo “dossier”.

Invece si è spesa per l’estradizione di Chico Forti, condannato all’ergastolo e da 24 anni detenuto in Florida. Al suo arrivo in Italia, la premier è andata ad accoglierlo, sfregiando un alfabeto diplomatico consolidato (il ministro degli Esteri non ci è andato) pur di mettere la firma sul successo dell’operazione. Nel caso di Salis, al di là dei passi diplomatici dovuti per l’arresto di un’italiana all’estero, la premier si è attivata poco e solo dopo che le immagini di Salis condotta al guinzaglio al processo hanno fatto il giro d’Europa.

Dunque da ieri Ilaria è libera, possiamo dire nonostante il governo del suo paese. In forza di un’ordinanza fondata sulla “comunicazione” inviata dal ministero degli Esteri di Budapest a Bruxelles e a Strasburgo. E di un’immunità parlamentare da tempo cancellata in Italia, ma che resiste ancora per i parlamentari europei. Il procedimento a suo carico è sospeso. Spetterà ai giudici ungheresi chiedere al nuovo parlamento europeo la revoca dell’immunità.

La famiglia Salis è certa che quella richiesta non tarderà ad arrivare. Resta il fatto che la legnosità burocratica del governo italiano è stata travolta dalla scelta politica e umanitaria dell’alleanza verdi-sinistra. In paragone con il calore ostentato con cui Meloni ha accolto in Italia Forti, a pensare male, viene da chiedersi se il tweet di Santanchè non sveli un retropensiero condiviso: il peccato di Salis è essere di sinistra, e accusata di reati che hanno a che vedere con l’antifascismo militante.

Toti verso le dimissioni

L’altra contemporanea doccia fredda, per la maggioranza, è la conferma dei domiciliari per il presidente Toti. Non che non fosse una notizia annunciata, visto le tesi dell’impianto accusatorio. Va detto che la destra fin qui ha difeso il collega non molto oltre il minimo sindacale del garantista. Ieri lo ha fatto il ministro Salvini (ha parlato di «accanimento politico o giudiziario», si è chiesto se «è davvero giustizia») e naturalmente il compagno di partito Maurizio Lupi.

La Gip di Genova, nell’ordinanza di rigetto dell’istanza di revoca degli arresti, scrive fra l’altro che «in concomitanza di ciascuna delle quattro competizioni elettorali che si sono susseguite nell’arco temporale della presente indagine (...) l’indagato, pressato dalla necessità di reperire fondi per affrontare la campagna elettorale, ha messo a disposizione la propria funzione, i propri poteri e il proprio ruolo, in favore di interessi privati, in cambio di finanziamenti, promessi e concretamente erogati».

Per i legali di Toti l’assunto di fondo della conferma della detenzione preventiva è che Toti «finché fa politica è pericoloso», dunque il «suggerimento che leggiamo fra le righe» è «fare un passo indietro». Toti deciderà con la sua giunta, forse anche con altri, ma certo le sue dimissioni precipitano la Liguria a elezioni anticipate alle quali la maggioranza non è pronta, una grana imprevista.

Resta che la destra sulle vicende giudiziarie intorno ai governatori ha sbandato senza costrutto: ha chiesto le dimissioni del pugliese Emiliano (non indagato) ma ha sostenuto la permanenza di Toti (arrestato). Uno sbandamento che prosegue nell’affratellamento della giustizia italiana con quella ungherese, in un unico evergreen, l’infantile accusa ai pm di tutto l’orbe terracqueo di favorire gli avversari.

© Riproduzione riservata