Maledetti cavalli e maledetti pìccioli. Se l’amico di una vita non avesse avuto certe passioni, sicuramente non l’avrebbero tormentato per 40 e passa anni. Anche se si era già messo in tasca la tessera numero 1816 della loggia P2 di Licio Gelli, anche se le sue scorrerie da impresario erano molto di confine, anche se nessuno aveva contezza della provenienza di tutti quei soldi per costruire una nuova città, il “ghetto dei ricchi” come qualcuno chiamava allora Milano 2.

Ma quando la mafia ti si appiccica addosso non te la puoi levare più, non scivola via dalla pelle, la mafia è un marchio indelebile. Resta sino alla fine. E quello è il destino che ha avuto il cavaliere Silvio Berlusconi.

L’inizio di tutto

Non sappiamo se questa grande storia italiana dobbiamo farla cominciare nel 1974 quando l’impiegato palermitano Marcello Dell’Utri si licenzia dall’agenzia della Sicilcassa di Belmonte Mezzagno e viene assunto come segretario particolare di Silvio, o dal 1980 quando il segretario particolare di Silvio viene intercettato al telefono dai poliziotti della Criminalpol che indagano su un traffico di eroina fra la Sicilia e Milano. Ma forse non è poi tanto importante, perché le due date (e i personaggi coinvolti a cavallo fra il 1974 e il 1980) s’incrociano pericolosamente e sono l’origine di molte delle sventure giudiziarie che accompagneranno Berlusconi per il resto della sua esistenza. Maledetti cavalli e maledetti pìccioli.

Lo stalliere

Prima scena, 1974. Il giovane Marcello sbarca a Milano e, fra i compiti ufficiali da svolgere, ha anche quello di curare la ristrutturazione della villa ad Arcore che Silvio ha acquistato dalla marchesina Annamaria Casati Stampa. Le versioni dei fatti qui sono due. E molto discordanti fra loro.

La prima. In Lombardia è il periodo dei sequestri di persona, qualcuno minaccia di rapire il figlio di Silvio Berlusconi, Pier Silvio, e Dell’Utri assume come fattore, ma anche come protettore del bimbo per scortarlo sino a scuola e sorvegliarlo in ogni momento della giornata, un palermitano che si chiama Vittorio Mangano. È uno che di certe cose se ne intende.

La seconda versione. Marcello Dell’Utri, consigliato dagli “amici” di Palermo, fa salire a Milano il mafioso della famiglia di Porta Nuova Vittorio Mangano, uomo di fiducia del boss Tanino Cinà. Già diffidato di pubblica sicurezza come “persona pericolosa”, Mangano resterà ad Arcore per più di due anni con la moglie, la suocera e le tre figlie. All’antica. Assunto come “stalliere”, in realtà è l’ambasciatore di Cosa Nostra alla corte di Silvio.

La telefonata

Seconda scena, 1980. Vittorio Mangano non abita più a villa San Martino ma all’hotel milanese Duca di York. E un giorno succede quello che succede. Alle 15.44 del 14 febbraio compone il numero 02 8054136. Il telefono, intestato a un certo Sergio Fava, squilla. Dall’altra parte del filo però non c’è il signor Fava ma Marcello Dell’Utri.

I poliziotti ascoltano. La conversazione viene inserita nel fascicolo 0500 del 13 aprile 1981 della Criminalpol «dove vengono trattate insospettabili persone che costituiscono il vero centro motore del crimine in Lombardia».

La telefonata è breve.

Esordisce Mangano: «Perché io le devo parlare di una cosa..».

Risponde Dell’Utri: «Benissimo».

Mangano: «Anzitutto un affare».

Dell’Utri: «Eh beh, questi sono bei discorsi».

Mangano: «Il secondo affare che ho trovato per il suo cavallo».

Dell’Utri: «Davvero? Ma per questo dobbiamo trovare i soldi... ma i pìccioli chi ce li ha?».

Mangano: «Perché? Non ce ne hai?»

Dell’Utri: «Senza pìccioli non se ne canta messa».

Mangano: «Vada dal suo principale! Silvio!».

Dell’Utri: «Quello n’sura (non sgancia, ndr), manco se...».

Un patto di ferro

Abbiamo riportato gli stralci della conversazione perché con questa telefonata inizia la vicenda giudiziaria dell’uno e dell’altro, di Silvio e Marcello, il primo perennemente sospettato per l’incerta radice della sua strepitosa fortuna e il secondo condannato definitivamente nel 2014 a sette anni per concorso esterno mafioso.

Per i poliziotti della Criminalpol di Milano quello di cui parlavano al telefono Mangano e Dell’Utri non era un cavallo, ma un “cavallo” con le virgolette: droga. Da quell’intercettazione al Duca di York l’ex impiegato della Sicilcassa diventa, negli anni a venire, un “obiettivo” delle sezioni investigative e delle procure antimafia d’Italia, trascinandosi appresso l’amico Silvio. Il cavaliere e Marcello che fondano Forza Italia. Silvio che per quattro volte è presidente del Consiglio. Un patto di ferro, nella buona e nella cattiva sorte.

Il legame

Torniamo a quella telefonata e a ciò che accade in seguito. Vittorio Mangano viene arrestato per traffico di stupefacenti, l’inchiesta è di Giovanni Falcone, giudice istruttore della settima sezione dell’ufficio istruzione di Palermo. Marcello Dell’Utri è estraneo al business, ma la traccia del suo legame con Vittorio Mangano rimane anche perché lo “stalliere” non lo aiuta. Appena scarcerato, quale indirizzo dà del suo domicilio all’autorità di polizia? Villa San Martino, via San Martino 42, Arcore.

E mentre il mafioso di Porta Nuova va su e giù fra Milano e Palermo, Marcello lascia Silvio per trasferirsi a Torino e fare affari con Filippo Alberto Rapisarda, anche lui siciliano, invischiato in operazioni immobiliari ad alto rischio, in spericolatissimi rapporti con Vito Ciancimino e con i boss Cuntrera e Caruana di Siculiana. Rapisarda fa bancarotta e ripara latitante in Venezuela (con il passaporto di Alberto Dell’Utri, fratello gemello di Marcello) e l’ex segretario di Silvio torna a casa, a Milano.

I favolosi anni Ottanta

Ormai Berlusconi è nel mondo della televisione, è Sua Emittenza. Nel 1979 fonda Fininvest, per la raccolta pubblicitaria c’è Publitalia, l’amministratore delegato è Marcello. Delle amicizie un po’ così con quei siciliani non se ne parla più.

I "favolosi” anni Ottanta ingoiano tutto, scivolano via felicissimi per Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Dimenticata la telefonata dei “cavalli”, sepolto il ricordo della disgraziata avventura con Rapisarda, ricomposto il rapporto con Silvio dopo la separazione torinese. La mafia è ufficialmente sparita dalla vita di Marcello e Silvio.

Incontri casuali

Ufficialmente. Perché – ma si scoprirà soltanto qualche anno dopo – il palermitano approdato alla reggia di Arcore quegli “amici” li frequenta ancora. E, spesso, con Vittorio Mangano. Con lui, una sera, è alle “Colline pistoiesi”, un ristorante milanese. Si festeggia il compleanno di Antonino Calderone, il fratello di Pippo, il capo della Cupola regionale di Cosa Nostra.

Il brindisi per i suoi 39 anni lo fanno insieme ai boss di Palermo Nino e Gaetano Grado. Una rimpatriata.

Marcello Dell’Utri si giustificherà così: «Non conoscevo i commensali».

Ma non è il solo incontro borderline. Ce n’è un altro, questa volta a Londra dove si sposa Jimmy Fauci, un pregiudicato che gestisce per conto dei Caruana il narcotraffico. Marcello Dell’Utri è al matrimonio di Jimmy, al banchetto ci sono anche Francesco Di Carlo che è il padrino di Altofonte e Mimmo Teresi, il braccio destro del capo della mafia palermitana Stefano Bontate. C’è pure Tanino Cinà, immancabile, il boss che suggerì a Marcello di far assumere Mangano a Villa San Martino. «Ero là per caso, mi ci ha portato Cinà», risponderà ai poliziotti in uno dei tanti interrogatori ai pubblici ministeri.

Quelli di là sopra

Quello che abbiamo sino ad ora scritto su Berlusconi e su Dell’Utri, fino al 1993 si sapeva e non si sapeva, si diceva e non si diceva. Erano sussurri, erano ombre. Tutto cambia nel 1994, quando c’è la famosa “discesa in campo” di Berlusconi e all’improvviso dal ventre di Cosa Nostra fuoriescono le voci di un collegamento fra la mafia siciliana e quello che da lì a qualche mese diventerà il capo del governo italiano.

Sono passati quasi due anni dalle stragi di Palermo, Falcone muore il 23 maggio del 1992 a Capaci e Borsellino salta in aria il 19 luglio in via D’Amelio. Una dozzina di grandi latitanti di mafia vengono catturati, tre o quattro pentiti cominciano a far crollare il muro di omertà dentro Cosa Nostra, uno di loro è della commissione di Palermo, la Cupola, il "governo” mafioso. Si chiama Totò Cancemi. Tentenna un po’ prima di vuotare il sacco, poi parla di «quelli di là sopra».

Gente di fuori, non siciliani. Sono «persone importanti» – confidenza che gli fa il capomafia del quartiere Noce, Raffaele Ganci – che avrebbero assicurato al capo dei capi Totò Riina una legislazione favorevole e la revisione dei processi, a cominciare dal maxi istruito dal giudice Falcone. Dichiarazioni alla procura della Repubblica di Caltanissetta, quella competente per territorio a indagare sulle stragi.

Racconta Totò Cancemi: «Ganci non mi fece i nomi ma una cosa deve essere chiara, queste persone non erano certo di Cosa Nostra perché più importanti di Riina e di Provenzano non ce ne sono all’interno dell’organizzazione, quindi i personaggi con cui Riina si è incontrato dovete cercarli fuori».

Totò Cancemi rende testimonianza due volte, il 18 e il 25 febbraio del 1994. E, con un soffio di voce, parla di Silvio Berlusconi. Riferisce di interessi per il risanamento del centro storico di Palermo che è in disfacimento dallo sbarco di Garibaldi e di un misterioso “ragioniere” in contatto con Arcore, dei fratelli mafiosi palermitani Ignazio e Giovan Battista Pullarà, di Mangano. Parla anche di latitanti nella tenuta di Villa San Martino: «Lì hanno trovato rifugio Ciccio Mafara e anche i fratelli Grado e Giuseppe Contorno, tutti della famiglia di Santa Maria del Gesù».

E poi sbiascica qualcosa sulle “antenne”, i ripetitori per le televisioni di Berlusconi. I procuratori di Caltanissetta raccolgono con prudenza le confessioni di Cancemi, il capo Giovanni Tinebra si agita, è sulle corde. Si diffondono voci sull’iscrizione nel registro degli indagati “per concorso in strage” di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, Tinebra smentisce e definisce «assolutamente gratuite» le indiscrezioni.

Poi il procuratore capo si ingarbuglia. Dice che il pentito Salvatore Cancemi «ha fornito interessanti spunti investigativi, ma di difficile ed equivoca interpretazione». Interessanti o equivoci? C’è un’inchiesta su Berlusconi e Dell’Utri? Sono iscritti nel registro degli indagati per la strage di Capaci?

I loro nomi, coperti dalle sigle “Alfa” e “Beta”, nel registro degli indagati verranno inseriti qualche mese dopo. E, passati due anni, usciranno dall’inchiesta “per la friabilità del quadro indiziario”. Ma ormai Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri sono nel gorgo della mafia e in quello della giustizia. L’Italia però è l’Italia e il 10 maggio del 1994 “Alfa” è a palazzo Chigi. Capo del governo.

M, MM, MMM

Le indagini continuano e il 5 aprile del 1995 lo “stalliere” viene convocato dai magistrati di Palermo. Anche in quella procura hanno aperto un’indagine su Berlusconi e Dell’Utri. C’è anche Mangano. L’ipotesi di reato per tutti e tre è associazione mafiosa e riciclaggio. E, anche a Palermo, i magistrati utilizzano monogrammi per coprire l’identità degli indiziati: "M” è Berlusconi, "MM“ è Dell’Utri, "MMM” è Mangano. L’interrogatorio dello stalliere è molto naïf.

Domanda dei procuratori: «Signor Mangano, ricorda quando ha conosciuto esattamente l’onorevole Marcello Dell’Utri?».

Risponde: «Da una vita».

«Da quale vita?».

«Da quando Dell’Utri era presidente della squadra di calcio della Bacigalupo, io andavo al campo dell’Arenella a vedere a giocare quei ragazzi, un bel calciatore era anche il figlio di Tanino, Tanino Cinà».

La Bacigalupo, la squadretta di calcio della borgata marinara dell’Arenella che Marcello allenava quando aveva 26 anni. Non summit di mafia, incontri di calcio. Si sa, Palermo è una città dove ci si mischia facilmente.

Vittorio Mangano è uomo d’onore e non parla. Ma altri suoi vecchi compari sì. E anche tanto. Uno è Francesco Di Carlo, un pezzo grosso che è dentro il traffico internazionale di stupefacenti, conosce ogni segreto dell’organizzazione. Mette a verbale: «Ero a Milano con Bontate, Teresi e Cinà. Siamo andati nell’ufficio di Martello in via Larga, vicino al Duomo, che era una specie di ufficio di Cosa Nostra. Guidava Nino Grado perché conosceva Milano bene. Dopo la riunione con Martello, Stefano Bontate mi disse che dovevano incontrare un industriale, un certo Berlusconi: a quel tempo il nome non mi diceva niente…».

Aggiunge poi: «Era il 1974, poteva essere primavera o autunno, ricordo che non avevamo cappotti. Siamo andati in un palazzo di inizio Novecento. Qui ci viene incontro Dell’Utri, che io avevo già visto con Cinà. Con gli altri, compreso Bontate, Dell’Utri si è salutato con il bacio, a me con una stretta di mano. Con Grado già si conoscevano, perché avevano battute di scherzo e si davano del tu. Quindi siamo entrati in una grande stanza e dopo mezz’ora è spuntato questo signore sui trenta e rotti anni, che ci è stato presentato come il dottore Berlusconi che disse che “era a nostra disposizione per qualsiasi cosa”, e allora anche Stefano Bontate gli rispose nello stesso modo... Dopo il caffè cominciarono i discorsi seri..». Sugli affari, sulla protezione che Cosa Nostra vuole garantire a Berlusconi, alla sua famiglia e alle sue aziende. Fanno un accordo a Milano. Soldi che passano da Berlusconi ai rappresentanti di Cosa Nostra, attraverso le mani di Marcello e Tanino per poi ridistribuirli, dal 1974 fino al 1992, a tutte le “famiglie” di Palermo. È tutto certificato nella sentenza di condanna inflitta a Marcello Dell’Utri.

Comanda Riina

Ma le cose a Palermo non vanno come erano sempre andate. C’è l’aristocrazia criminale che è aggredita da Totò Riina. C’è una guerra di mafia che è uno sterminio. Cadono uno dopo l’altro grandi capi della Cosa Nostra della tradizione e ai vertici della Cupola arrivano i Corleonesi. Marcello Dell’Utri di tanto in tanto scende a Palermo ma non può più incontrare Pino Albanese della famiglia Malaspina o Giovanni Citarda detto “Gioia mia”, tutti e due fedelissimi di Stefano Bontate. Non contano più niente. Il patto stipulato a Milano però è ancora valido, lo eredita la nuova star mafiosa: Totò Riina. È lui adesso che comanda.

L’intermediario è sempre Tanino Cinà. Prende il denaro da Dell’Utri e non lo smista come un tempo agli amici dei Bontate ma a Pippo Di Napoli, che poi lo porta al suo capo Raffaele Ganci, che a sua volta lo consegna a Totò Riina.

La sintesi che fanno i giudici del processo contro Dell’Utri: «Deve ritenersi raggiunta la prova che, anche successivamente alla morte di Stefano Bontate, durante l’egemonia totalitaria di Salvatore Riina, sia Marcello Dell’Utri sia Gaetano Cinà hanno continuato ad avere rapporti con Cosa Nostra. Rapporti strutturati in maniera molto schematica: entrambi gli imputati, consapevolmente, hanno fatto sì che il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagasse somme di denaro alla mafia».

Un’enorme cassata

È questa solo una parte della connection Palermo-Milano, quella che nasce con Mangano a metà degli anni Settanta. È solo il primo tempo della rocambolesca avventura di Silvio Berlusconi con la mafia siciliana, con Vittorio Mangano al centro della trama.

Lo stalliere farà parlare di sé anche dopo la morte, avvenuta il 23 luglio del 2000. Lo evocano tutti e due, Marcello e Silvio. Già da qualche anno deputato alla Camera, Dell’Utri dirà sul suo amico Vittorio: «È morto per causa mia. Era ammalato di cancro, è stato ripetutamente invitato a fare dichiarazioni contro di me e Berlusconi. Se lo avesse fatto, l’avrebbero scarcerato con lauti premi e si sarebbe salvato. È un eroe, a modo suo».

Berlusconi gli fa da spalla: «Era una persona che con noi si è comportata benissimo. Sono d’accordo con Dell’Utri, pur essendo malato non inventò mai nessuna cosa contro di me. Stava morendo in carcere, i magistrati lo lasciarono andare a casa solo la mattina prima della sua morte. Ha ragione Marcello nel considerare eroico un comportamento di questo genere».

Dopo l’eroe Mangano muore anche Tanino Cinà. Ma prima di andarsene lascia un segno, battendo un primato difficilmente uguagliabile. Un dono molto gradito. Se ne trova traccia fra un groviglio di intercettazioni, nel solito processo Dell’Utri.

Una telefonata del giorno di Capodanno del 1987. È Cinà che telefona ad Alberto Dell’Utri, il fratello gemello di Marcello. Alberto lo saluta e gli dice: «Tanino, ti stavo chiamando per ringraziarti».

E Cinà: «È buona, arrivata bene?».

Alberto: «Benissimo».

Cinà: «Comunque io ti ho telefonato per farti gli auguri».

Alberto: «Grazie Tanino, ricambio con grande affetto».

Cos’era quella cosa “buona” che aveva messo tanta ansia a Tanino Cinà, tanto da preoccuparsi a chiedere se “era arrivata bene”? Era una colossale cassata che il boss aveva inviato per le feste a Silvio Berlusconi.

Per un trasporto sicuro, aveva provveduto a farsi costruire una speciale struttura in legno dove sistemare l’enorme cassata. Peso, undici chili e ottocento grami. Un impasto di ricotta e di potere con al centro il logo di Canale 5 di marzapane.

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