Giuseppe Ippolito è il direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma, membro autorevole del Comitato tecnico scientifico e uno degli scienziati che aveva previsto, con mesi di anticipo, la seconda ondata del Covid 19. È considerato a capo del gruppo dei “rigoristi”, anche se a Domani spiega che di un altro lockdown totale ne farebbe volentieri a meno. «Bisogna fare di tutto per evitarlo. La Spagna e la Francia, che hanno situazioni peggiori della nostra, e pure la Germania hanno tenuto aperte scuole e molte attività produttive. Speriamo di riuscire a farlo anche noi. Tenere i ragazzi nelle aule è fondamentale».

La pandemia in Italia sembra fuori controllo. Le curve sono tra le peggiori in europa. La politica è divisa sul da farsi, idem i virologi. L'opinione pubblica è disorientata.

«Innanzitutto io non sono un “virologo”, è una categorizzazione che non mi piace e che ormai rischia di scivolare verso la parodia. I virologi, quelli esperti di virus, sono pochi. La gestione di una epidemia necessita di competenze molteplici, epidemiologiche, cliniche, diagnostiche, logistiche, statistiche. La maggior parte di quelli che partecipano ai talk-show hanno altre specializzazioni. I giornalisti prima di chiedere numi al primo che capita dovrebbero informarsi sulla competenza dell’intervistato»

Perché lei in tv va poco?

«Io non amo i talk-show, sono costruiti per litigare e proporre tesi contrapposte, con l’obiettivo di fare audience sul talk di una rete concorrente. Preferisco sottrarmi, anche perché se uno ha da lavorare non può stare sempre a parlare in tv, o scrivere post su Facebook e Twitter a getto continuo. Perché pubblicare sui social è una cosa, pubblicare su riviste scientifiche è un'altra. Solo pochi volti televisivi hanno fatto ricerca primaria importante sui virus, sul Covid e sulle malattie infettive. Tra questi c'è sicuramente Massimo Galli, anche se si espone troppo.

A che punto siamo della notte? Chiuderemo tutto la settimana prossima?

«Non lo sappiamo. Saranno i dati a guidare le decisioni della politica. Ogni previsione rischia di essere smentita. Ci sono una serie di fattori che non conosciamo a sufficienza per fare previsioni solide, anche se i dati degli ultimi giorni e quelli del monitoraggio settimanale fanno alzare l’asticella a favore di inasprimenti delle misure. Io sono sempre stato favorevole ad un approccio alle chiusure che sia proporzionale all’analisi dei rischi. Il tutto in un contesto di sostenibilità sociale».

Secondo qualche suo collega i dati sulla diffusione del Covid nelle scuole non sono attendibili. È vero?

«Purtroppo i dati sulle scuole sono difficili da estrapolare perché la scuola in sé al momento sembra essere il posto più sicuro. Sono le fasi prima e dopo, gli spostamenti, i trasporti, gli assembramenti all’uscita che rendono difficile misurare l’effetto della permanenza in classe. Ma conosciamo questo virus da troppo poco tempo e non abbiamo modelli solidi. I risultati del monitoraggio ci dicono che il 40 per cento dei contagiati non ha link epidemiologico: è difficile capire dove e come si sono esposti».

I numeri dell’epidemia crescono esponenzialmente. Che errori sono stati fatti?

«Non parlerei di errori. Si può sempre fare di più, a tutti i livelli: stato, regioni, comuni. Oggi più che mai è necessaria una forte sintonia tra le istituzioni. Molto è stato fatto. Parlare dopo è sempre facile. Tutti siamo buoni a sparare soluzioni, realizzarle in maniera tempestiva e sostenibile è un'altra cosa».

Qualcuno aveva parlato di “virus clinicamente morto”. Lei invece ha sempre temuto una seconda ondata. Qual è il rischio reale oggi?

«I dati degli altri Paesi europei ci avevano fatto ipotizzare una nuova onda virale. Non serviva l’indovino. Noi ora abbiamo forse due settimane di ritardo su Francia, Spagna e Gran Bretagna. Credo che, analizzando i risultati dei tamponi, ma soprattutto quelli dei ricoveri e delle rianimazioni, abbiamo un possibile raddoppio di casi ogni 10-12 giorni. Recentemente il commissario Domenico Arcuri ha dato informazioni utili, con un grande sforzo di trasparenza. Il tasso di saturazione dei posti letto che gli hanno fornito i governatori indica che siamo al 22 per cento di occupazione per Covid delle nostre terapie intensive. Se è corretto, abbiamo ancora margini di manovra. Il vero problema, in questi giorni, è l'affollamento eccessivo dei pronto soccorso»

La gente va subito in ospedale perché è preoccupata di non essere curata a casa non crede?

«Ha ragione, la risposta della nostra medicina territoriale è stata troppo lenta fino ad ora. I medici di medicina generale si devono adeguare al momento, esattamente come hanno fatto i medici ospedalieri che senza batter ciglio stanno lavorando il doppio e in aree anche diverse da quelle da cui provengono. Lo stesso debbono fare i medici di base. Farsi pagare un extra per fare un tampone antigenico mi sembra, in questa situazione, poco accettabile»

Nel loro contratto nazionale però non c’è l’obbligo di fare tamponi.

«Nemmeno in quello dei medici ospedalieri e di tutto il restante personale del servizio sanitario nazionale! Eppure lo fanno. E se per questo nemmeno il Covid esisteva fino a pochi mesi fa. Non è che ogni volta che arriva una nuova patologia si può fare un'integrazione del contratto. L'esercito dei medici di base sarebbe utilissimo se andasse a visitare, con idonei presidi, la gente a casa evitando che le persone fossero costrette a riversarsi sui nosocomi quando non è necessario. Sono convinto che potremmo evitare nuovi, drammatici lockdown se tutti facessimo la nostra parte. Ma non c'è più molto tempo».

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Non converrebbe subito chiudere città come Milano, Napoli e Roma? Ci sono aree e regioni che hanno un Rt superiori al 2,5, zone in cui dove l'epidemia cavalca a ritmi insostenibili.

«Guardi, io da componente del Cts sono obbligato, su temi di questo tipo, a non rispondere. Ho firmato un accordo di riservatezza che intendo rispettare. Le dico però che bisogna evitare approcci semplicistici, e suggerirei a bravi colleghi di non fare dichiarazioni estemporanee ai giornali senza aver prima valutato ogni scenario. Oggi esiste la possibilità di lavorare ulteriormente con modelli e algoritmi più precisi. In Italia esistono competenze eccezionali nell'analisi dei dati. L'Istituto nazionale di fisica nucleare, ha al suo interno, i più grandi esperti di modelli matematici che giornalmente fanno un'analisi dei dati – utilizzando quelli della Protezione civile. Analisi che potrebbero essere studiati con più attenzione sia dai decisori che dai media».

In Europa c'è meno polifonia nelle informazioni che vengono date ai cittadini?

«Io credo che la comunicazione del rischio sia un tema fondamentale. Angela Merkel e Emanuel Macron hanno fatto annunci importanti su che tipo di chiusure avevano deciso. E i giornali e le trasmissioni più autorevoli hanno riferito quelle indicazioni con linearità e limpidezza lasciando poi spazio alle altre notizie dal momento: la vita continua. Noi riempiamo pagine di quotidiani con informazioni, tabelle e interviste spesso senza senso, del tutto fuorvianti per la pubblica opinione»

Qual è il dato più importante per prendere decisioni?

«L'indicatore finale sono le cento persone al giorno che finiscono in rianimazione, un dato che oggi mi preoccupa. Nessun paese civile può permettersi un sistema di terapie intensive che vada in tilt. Per questo è stato aumentato anche in Italia a partire dalla scorsa primavera il numero dei posti letto».

Perché non chiedete come Cts al governo misure più rigorose?

«Il vero rigore sta nel convincere la popolazione ad applicare le misure, che siano uguali, proporzionali e relative alla situazione nazionale. I modelli che esistono hanno buona forza predittiva, ma senza una responsabilità individuale di ciascuno, noi non ne usciremo. Il lockdown morbido è quello che abbiamo avuto con l'ultimo Dpcm. Si può stringere ancora un po'. Ogni decisione va spiegata bene ai cittadini. Perché le chiese non si chiudono e i teatri invece sì? Perché le palestre e le piscine una settimana sono posti sicuri e quella successiva non più?»

Forse perché non c'è una strategia comunicativa chiara né del governo né del mondo scientifico.

«La strategia del governo non sta a me valutarla. Ma esperti e media devono essere più responsabili. In Germania, per esempio, non è che si dà voce a tutti. I negazionisti hanno pochissimo spazio. Nella scienza non è che uno vale uno. All'estero anche le istituzioni scientifiche parlano con una sola voce. A Berlino c'è quella del virologo Christian Drosten, o dei responsabili dell'Istituto Koch, spesso con messaggi telegrafici di un minuto e mezzo: bastano e avanzano per dire, con autorevolezza, quello che si deve».

 

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