Quando c’è stato bisogno di un sacrificio per placare l’ira degli dèi dell’anticasta, quello delle province è apparso a tutti come uno dei più sostenibili. Erano gli anni in cui il centrosinistra di governo cercava in tutti i modi di rispondere all’avanzata del Movimento 5 stelle. Ma nemmeno la tentata abolizione di quello che in maniera quasi inequivocabile appariva come un “ente inutile” è servita.

Il M5s è arrivato a palazzo Chigi e le province sono rimaste, pur in una forma “sterilizzata”, al loro posto. Ferite ma non uccise. E adesso che il paese sembra vivere un’altra fase storica, potrebbero addirittura risorgere.

Oggi si vota per eleggere 31 presidenti di provincia e rinnovare 75 consigli provinciali. I seggi saranno aperti dalle 8 alle 20. La riforma del 2014, la cosiddetta “riforma Delrio” (da Graziano, oggi deputato del Pd, all’epoca ministro degli Affari regionali del governo Letta e successivamente sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Renzi), ha trasformato le province in enti di secondo livello. Le elezioni, quindi, si svolgono a suffragio ristretto. A eleggere presidenti e consigli provinciali saranno sindaci e consiglieri di oltre 5.500 comuni.

Le province in cui si voterà per eleggere il presidente sono: Ancona, Alessandria, Ascoli Piceno, Avellino, Belluno, Bergamo, Biella, Caserta, Chieti, Crotone, Fermo, Ferrara, Forlì-Cesena, Grosseto, Imperia, Latina, L’Aquila, Lecco, Macerata, Mantova, Massa Carrara, Parma, Pavia, Perugia, Pescara, Ravenna, Rovigo, Terni, Treviso, Verbano Cusio Ossola, Viterbo.

Qualche giorno fa il Sole 24 Ore ha scritto che il governo starebbe lavorando a una controriforma, da inserire in un disegno di legge collegato alla manovra, che dovrebbe ripristinare le giunte provinciali con gli assessori (tre di base, quattro nei territori con oltre un milione di abitanti) pagati con un’indennità pari al 50 per cento dei loro omologhi comunali. Una restaurazione in grande stile.

Dopotutto, come ha detto il presidente dell’Unione delle province d’Italia, Michele de Pascale, «quelle del 18 dicembre sono elezioni particolarmente significative per le province. Il governo Draghi ha riconosciuto e valorizzato il ruolo di queste istituzioni, assegnando loro importanti responsabilità sia nell’attuazione del Pnrr sia con la legge di Bilancio 2022.

Un rilancio dell’ente che nei territori è evidentemente avvertito: tutte le forze politiche partecipano alle elezioni con liste e candidati e i sindaci dei comuni interessati al voto, a partire dai comuni capoluogo, sono presenti nelle liste dei consigli provinciali. Certo, questa attenzione e questo protagonismo hanno bisogno di un riconoscimento anche istituzionale, attraverso la revisione della legge 56 del 2014 (la legge Delrio, ndr) che ormai è ritenuta indispensabile da tutte le forze politiche». Non a caso de Pascale chiede a governo e parlamento che nella legge di Bilancio «si preveda anche per province e città metropolitane la facoltà di assumere personale a tempo determinato per l’attuazione del Pnrr».

Basterebbe questo per far capire quanto sia cambiato il clima politico negli ultimi anni. E se tra il 2011 e il 2018 i partiti facevano a gara per moralizzare la politica, oggi fanno a gara per arrivare prima sulle poltrone che ci sono e che, forse, torneranno.

Alleanze, regolamenti di conti, qualche vecchia conoscenza che rispunta qua e là. Le elezioni delle province non sono poi così lontane dalle manovre che in parlamento accompagnano l’imminente elezione del presidente della Repubblica e la definizione degli schieramenti che si sfideranno per governare l’Italia del dopo Draghi.

LaPresse

Alle origini di una riforma

«Le elezioni di presidenti e consigli sono la dimostrazione che le province sono ormai diventate a tutti gli effetti “la casa dei sindaci”. Cioè, come previsto dalla riforma, degli enti di secondo livello». A parlare è Graziano Delrio, “padre” di una riforma che, dal 2014, attira critiche da ogni parte.

Da un lato c’è chi l’accusa di non aver raggiunto l’obiettivo di eliminare le province, complice anche il fallimento referendario del 2016. Dall’altro chi dice che ha svuotato la casse di questi enti di secondo livello, impedendo loro di operare nei settori di propria competenza (su tutti gestione delle strade provinciali ed edilizia scolastica).

Per il deputato del Pd il problema è più complesso e il passaggio referendario non ha affatto minato l’impianto di una riforma che nei suoi princìpi cardine può dirsi pienamente attuata. «Il problema è che in molti fanno confusione tra la legge e i tagli. Quella che porta il mio nome è stata una riforma ordinamentale. Il cui impianto generale è nato all’interno dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) a partire dal 2011. I tagli sono stati attuati anzitutto dal governo Monti e poi purtroppo confermati dai governi di centrosinistra. Ma l’obiettivo principale della legge, cioè quello di semplificare ed evitare l’ipertrofia delle province, che all’epoca si occupavano di tutto, è stato raggiunto. E il fallimento del referendum non ha influito», dice Delrio.

In effetti la legge è stata approvata nel 2014, durante il governo Letta. Quindi due anni prima del passo falso referendario di Renzi. «Ricordo che Dario Franceschini, dopo l’approvazione, mi disse: “Con questa legge possiamo anche evitare di abolire le province”. Aveva ragione».

Alla fine Franceschini, in un senso probabilmente diverso da quello inteso da Delrio, ha avuto ragione. Il fallimento del referendum costituzionale ha evitato l’abolizione delle province che, nel frattempo, hanno ricominciato a ricevere fondi per la sopravvivenza. Oggi, superata la stagione dei tagli e con le munifiche promesse del Pnrr, il futuro appare radioso.

Anche se Delrio un timore ce l’ha. E cioè che, come spesso accade in Italia, tutto venga cancellato e si ricominci dall’inizio. «Vedo molti politici di vecchia data che hanno una certa nostalgia degli enti provinciali di una volta e dell’elezione diretta del presidente della provincia. Dicono che se eletto dai cittadini sarebbe più autorevole e rappresentativo. Ma il presidente della Repubblica non è eletto dai cittadini, è per questo meno autorevole e rappresentativo?»

A volte ritornano

Chissà a chi pensa Delrio quando parla di «politici di vecchia data». Di certo colpisce che, tra i candidati alla presidenza in queste elezioni provinciali, ci sia Claudio Scajola. Già ministro dei governi Berlusconi, già coordinatore e parlamentare di Forza Italia, con due mandati come sindaco di Imperia a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Il terzo lo ha iniziato il 27 giugno del 2018 dopo aver battuto al ballottaggio il candidato sostenuto dal centrodestra.

Oggi, mentre in città i numeri della pandemia crescono con preoccupante regolarità, mira, unico candidato in corsa, alla presidenza della provincia di Imperia. Il perché lo ha spiegato lui: «Da quando è cambiato il sistema elettorale della provincia ci sono state due elezioni avvenute in modo unitario e che hanno gestito la provincia negli ultimi sette anni: i risultati sono insoddisfacenti. Di fronte a questa situazione ho dato la mia disponibilità ad aggiungere questo impegno a quello di sindaco».

Meritorio proposito che lascia aperta la domanda sul perché Scajola abbia deciso di “scendere in campo”. Certo, rappresenta il comune capoluogo, ma nelle ultime due elezioni a essere eletti erano stati due sindaci, entrambi di area centrosinistra, di comuni minori (Fabio Natta, sindaco di Cesio, e Domenico Abbo, sindaco di Lucinasco).

L’ex ministro di FI non è il solo “volto noto” che si è mosso per questa tornata elettorale. A Biella Gianluca Susta, ex sindaco dalla città, presidente del Consiglio provinciale, vicepresidente della giunta regionale del Piemonte, parlamentare europeo, senatore eletto con Scelta civica nella precedente legislatura (poi transitato nel Pd), si è fatto promotore di una lista – Biellese al centro – a sostegno del candidato presidente Emanuele Ramella: «Non possiamo lasciare che entrambi gli enti più importanti del Biellese, il comune e la provincia, siano governati da questa destra».

Più a sud, provincia di Forlì-Cesena, a correre per la presidenza è il sindaco di Cesena Enzo Lattuca che, a dispetto dei suoi 33 anni, ha già alle spalle una legislatura da parlamentare e un futuro da grande promessa del Pd nella sua stagione bersaniana. Intervistato dal Resto del Carlino, dice: «Ora che si avranno più risorse, si tratta di investire in politiche mirate per far ripartire la provincia e promuovere strategie di sviluppo. Ora che le risorse ci sono, agiremo».

Insomma, i soldi non faranno la felicità, ma di sicuro aiutano la politica a guardare con una certa simpatia al rinnovato protagonismo delle province.

Divisi alla meta

Infatti non mancano, esattamente come sta accadendo a livello nazionale, processi di composizione e scomposizione di alleanze, campi larghi, centrini e vendette mal-destre.

Ad Ancona, per esempio, la sfida per la presidenza sarà tra Daniele Carnevali (centrosinistra) e Marco Filipponi (centrodestra). Ma le liste per il consiglio sono tre. Il M5s ha deciso di presentare propri candidati sotto il simbolo di Ancona per i beni comuni. Mentre i rappresentanti di Azione di Carlo Calenda fanno parte della lista Unione democratica.

Ad Avellino sarà uno scontro fratricida all’interno di quello che, ancora formalmente, sarebbe il centrosinistra. Rizieri Buonopane, espressione dell’alleanza giallorossa (con il Pd che però pensa già al regolamento di conti nel prossimo congresso provinciale) condita con sardine, mastelliani e varie ed eventuali, dovrà vedersela con Angelo D’Agostino, imprenditore e presidente dell’Unione sportiva Avellino 1912, che invece ha il sostegno di Italia viva, Azione, +Europa e di quelle forze moderate a cui non dispiacerebbe la nascita di una “cosa” di centro. Il “laboratorio Irpinia” (che non a caso è anche il nome di una lista a sostegno di Buonopane) potrebbe fornire qualche segnale anche a livello nazionale.

Il dramma del centrodestra si consuma nel Lazio. A Latina Forza Italia, Pd e un gruppo di liste civiche appoggiano la candidatura di Gerardo Stefanelli, sindaco di Minturno ed ex assessore provinciale all’Ambiente, mentre Lega e Fratelli d’Italia puntano sul sindaco di Itri, Giovanni Agresti. A Viterbo schema analogo: una parte di FI e il Pd candidano Alessandro Romoli – e la cosa ha creato più di qualche polemica all’interno dei democratici – Lega e FdI rispondono con Alessandro Giulivi.

Ancora più complicate le situazioni di Rovigo e Bergamo. Nella provincia veneta il leghista Enrico Ferrarese sarà sostenuto da una lista formata da candidati civici, Lega e parte del Pd. Il suo avversario, Gian Pietro Rizzatello, potrà invece contare sulla strana alleanza tra Forza Italia, FdI e Italia viva. In Lombardia caos totale nel centrodestra, che ha presentato tre delle quattro liste in corsa ma ha lasciato al Pd l’unico candidato presidente: Pasquale Gandolfi.

Ad Ascoli Piceno, al contrario, l’unico candidato sarà Sergio Loggi, espressione di Italia viva, ma ci sarà una sola lista a sostenerlo. Il centrodestra infatti, per motivi tecnici e politici, non è riuscito a presentare le proprie candidature.

In Campania, provincia di Caserta, ci sarà l’unica sfida a tre che vedrà contrapposti: Giorgio Magliocca (Moderati, Italia viva, Noi Campani), Antonio Mirra (Pd) e Stefano Giaquinto (FdI, Lega e FI).

A Pavia la rottura interna alla Lega si è consumata settimane fa. L’ala vicina all’europarlamentare Angelo Ciocca si è schierata per Angelo Bargigia in opposizione alle decisioni della segreteria provinciale e regionale. In queste elezioni provinciali sfideranno Giovanni Palli (sostenuto da FI, Lega e FdI). Il coordinatore regionale, Fabrizio Cecchetti, ha annunciato che Bargigia, Ciocca e gli altri candidati alle elezioni provinciali di Pavia sono stati espulsi dal partito.

Quotine rosa

Come purtroppo accade troppo spesso, non si può dire che le donne siano protagoniste di questa tornata elettorale. Le candidate, nelle 31 province al voto, sono tre, due delle quali in Umbria. A Perugia si sfideranno, Stefano Zuccarini (centrodestra), sindaco di Foligno, e Stefania Proietti (centrosinistra), sindaca di Assisi. A Terni il centrosinistra punta sull’uscente Giampiero Lattanzi ma il M5s, pur esprimendo propri candidati per il consiglio, ha fatto sapere che non voterà alcun candidato presidente. Il centrodestra ha invece scelto la sindaca di Amelia, Laura Pernazza. A Lecco altra candidatura unitaria del centrodestra, Alessandra Hofmann, contro Marco Passoni. A decidere la sfida sarà però una lista di sindaci “civici” promossa da alcuni primi cittadini di centrosinistra.

Note a margine. A Ravenna scontata la conferma dell’unico candidato, presidente dell’Upi, de Pascale. Che già a ottobre era stato confermato sindaco del capoluogo sostenuto da una coalizione ampia che andava dal Pd al M5s, passando per Ravenna Coraggiosa.

A Belluno il presidente uscente Roberto Padrin si ricandida, senza sfidanti. Tre giorni fa è stato in udienza da papa Francesco che gli ha confermato che Albino Luciani, al secolo Giovanni Paolo I, originario di Canale d’Agordo, verrà beatificato «dopo l’estate, sicuramente entro la fine del 2022». Un ottimo viatico in vista della rielezione, scontata, di oggi.

Urne vuote

Sullo sfondo di tutto questo resta però un’incognita. Nonostante l’entusiasmo con cui molti sindaci hanno accolto il turno elettorale, il rischio che in pochi si rechino alle urne è altissimo. Anche tra i primi cittadini l’astensione resta comunque un’opzione altamente praticabile. L’antipolitica che aveva spinto i governi a battersi contro le province, forse, è radicata più profondamente di quanto ci sembra. «Sarei un bugiardo se dicessi che il clima dell’epoca – dice Delrio – non ha influito sul dibattito e sulle scelte politiche che sono state fatte. Ciò nonostante ribadisco che lo spirito della riforma era nato molto prima in seno all’Anci di cui sono stato presidente. L’obiettivo era di semplificare e rendere più efficiente il sistema, definire i compiti e responsabilizzare i sindaci che sono l’istituzione più prossima ai cittadini. Un obiettivo che credo si stato centrato». Sarà, ma il ritorno al passato sembra veramente a un passo.

© Riproduzione riservata