La prassi ha vacillato ma ha retto. Il nuovo presidente della Corte costituzionale è Mario Rosario Morelli, ex presidente di sezione della Cassazione, che succede a Marta Cartabia, prima donna a capo della Consulta. Rimarrà in carica appena tre mesi, perché il suo mandato da giudice termina il 12 dicembre 2020. Proprio la breve durata del mandato aveva lasciato ipotizzare che la Corte potesse riformare la sua prassi di eleggere a presidente il componente con maggiore anzianità di servizio. Invece il collegio ha scelto di proseguire nel solco della tradizione, allontanando di almeno altri due presidenti e fino al 2022 la possibilità di una nuova presidente donna, quando a contendersi la presidenza saranno Silvana Sciarra, Daria de Pretis e Nicolò Zanon, che hanno giurato insieme l’11 novembre 2014. La Corte aveva l’occasione storica di aprirsi a un cambiamento epocale, nominando un’altra donna, e l’ha persa.

Niente unanimità

Eppure una sbavatura, sintomo di divisione interna tra i giudici, c’è stata. Il neopresidente Morelli è stato eletto con 9 voti a favore, contro i 5 per Giancarlo Coraggio e 1 per Giuliano Amato. Coraggio e Amato sono i più anziani in servizio dopo Morelli: il loro mandato finirà nel 2013, quindi avrebbero entrambi potuto garantire una presidenza di due anni. Tuttavia, l’indicazione dello scarto di voti per l’elezione di Morelli nel comunicato stampa ufficiale è un dato eclatante, tra gli stucchi di palazzo della Consulta. Mai prima di oggi era stata esplicitata formalmente la frattura interna al giudice delle leggi.

Per risalire all’ultimo presidente non eletto all’unanimità bisogna tornare al 2014: Giuseppe Tesauro venne eletto con un solo voto di maggioranza e per un mandato di tre mesi, proprio come quello di Morelli. In quell’occasione la notizia della spaccatura interna arrivò alla stampa, ma ufficialmente la Corte costituzionale si limitò a dar conto dell’elezione, senza indicare l’esito numerico della votazione. Oggi almeno questa prassi è stata superata e potrebbe nascondere proprio la volontà di una parte del collegio di cambiare la logica dell’elezione del giudice più anziano. Il criterio in alcuni casi favorisce presidenze molto brevi che impediscono di portare avanti un progetto nella gestione della Corte, non tanto nel suo ruolo di giudice delle leggi quanto di organo che negli ultimi anni ha puntato a valorizzare il suo ruolo di soggetto pubblico. Per altro verso, invece, l’automatismo non scritto toglie politicità al ruolo di presidente e valorizza la collegialità della Consulta, eliminando la possibilità di schieramenti e cordate interne tra giudici al momento dell’elezione del vertice. Non a caso il neoletto Morelli ha dichiarato che «la forza della Corte risiede nella collegialità».

Era stato ipotizzato anche un passo indietro di Morelli, in favore dei colleghi che avrebbero potuto garantire un mandato più lungo. Contro questa possibilità potrebbe aver influito anche un dato economico. I giudici guadagnano 360 mila euro lordi l’anno, ma il presidente somma l’indennità di funzione, per un totale di 432 mila euro annui. Con un incentivo del genere, è difficile cambiare la prassi.

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