Per qualche giorno, attraverso i media, è sembrato che il problema di maggiore rilevanza nel paese fosse la possibilità di stare a tavola in più di quattro persone al ristorante in zona bianca. La questione era stata portata alla ribalta dall’usuale protagonismo di qualche politico che ne aveva fatto il proprio temporaneo cavallo di battaglia, con la consueta azione di pressione sul governo perché la regola fosse in qualche modo derogata.

La regola stessa era chiara. L’ultimo decreto-legge diceva espressamente che, fatto salvo quanto diversamente disposto, fino al 31 luglio 2021 continuava ad applicarsi il Dpcm del 2 marzo 2021, secondo cui i commensali non possono essere più di quattro, senza distinzioni fra regioni di colore diverso. Ma le Linee guida per la ripresa delle attività economiche e sociali della Conferenza delle regioni, adottate con ordinanza del ministro della Salute il 29 maggio, tacevano sul punto, lasciando così spazio per ipotizzare che il limite previsto dal decreto potesse restare inosservato. Il ministro della Salute, con un comunicato del 1° giugno, aveva ribadito la prescrizione delle quattro persone per tavolo. Ma la questione era comunque diventata oggetto di dibattito politico e mediatico, come se fosse basilare, mentre i governanti spendevano tempo – quindi, risorse dei contribuenti – nel sostenere le rispettive posizioni contrapposte. Fino a quando, il 4 giugno scorso, un’ordinanza del ministro Roberto Speranza ha stabilito che in zona bianca il limite fosse portato a 6 persone dentro i ristoranti, e abolito all’esterno.

L’impressione è che le regole di contrasto al Covid-19 siano ormai reputate un inutile orpello, e non invece un presidio che serve. Ci si chiede, allora, quale sia il senso di mantenerle, se chi fa le norme poi retrocede a fronte di pressioni, dando l’idea che esse non siano calibrate rispetto a reali esigenze, fondate su basi scientifiche, ma possano essere oggetto di contrattazione politica o sociale, come fossero cosa di poco conto. Comunque, lo scontro sul numero dei commensali dice molto sulla scarsa consapevolezza politica e sociale circa i reali problemi di un paese che faticosamente prova a uscire dalla pandemia.

La mascherina all’aperto

Un’altra delle regole delle quali pare si sia perso il senso è quello delle mascherine all’aperto. Come detto, l’ultimo decreto-legge, sopra citato, fa salvo il Dpcm del mese di marzo, quindi resta in vigore la norma per cui c’è l’obbligo di indossare «dispositivi di protezione delle vie respiratorie» nei «luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto». Ciò salvo che «per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantito in modo continuativo l’isolamento da persone non conviventi». E “isolamento continuativo” è concetto diverso dalla «distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro», di cui si parla qualche comma dopo. Dunque, la regola è indossare la mascherina, l’eccezione è la garanzia di una situazione di isolamento. È un’eccezione controversa sin dalla sua introduzione, perché la valutazione della possibilità di isolamento in via continuativa è ardua. Tuttavia il governo attuale l’ha conservata, evidentemente reputando che servisse. In concreto, regola ed eccezione sembrano ormai sovvertite nella concezione di quanti ritengono che la regola vada rispettata in via eccezionale. A tale sovvertimento ha concorso l’assenza di controlli, quindi di sanzioni: se nessuno verifica che una disposizione sia osservata, si induce il convincimento che sia ormai superata. Pure in questo caso, sarebbe meglio che chi fa le regole ne attestasse la certezza: se una regola serve, servono anche controlli e sanzioni. Altrimenti meglio abolirla, anziché far passare il messaggio che ciascuno possa interpretarla, e addirittura violarla, a proprio piacimento.

Le regole per le vaccinazioni

Il generale Figliuolo ha conseguito un indiscutibile successo nelle vaccinazioni, è nei fatti. Tuttavia, ai risultati concreti si accompagna una comunicazione non sempre appropriata. Si rammenta quando parlò della vaccinazione “al primo che passa”, ma poi stabilì la regola del criterio anagrafico, perché rischiava di generare più caos di quanto già ce ne fosse; quando aprì le vaccinazioni ai quarantenni, salvo ribadire poco dopo che servisse vaccinare prima gli over sessanta; quando ribadì di voler tenere fermo il criterio anagrafico per l’ordine vaccinale, salvo derogarlo con la vaccinazione degli abitanti delle isole, per le quali il presidente della Campania era già passato ai fatti. È poi stato il momento dei richiami delle vaccinazioni nei luoghi di vacanza, rispetto ai quali il commissario straordinario si era detto contrario, salvo poi aprire anche a questa ipotesi, comunque invitando formalmente le regioni a trovare soluzioni di “massima flessibilità” per le prenotazioni durante l’estate, così che i richiami siano effettuati in periodi compatibili con le ferie delle persone interessate. La questione è stata così rimessa alla discrezionalità delle regioni stesse, che tuttavia non hanno sempre dato buona prova di organizzazione e coordinamento durante la pandemia. Anche per le direttive del generale Figliuolo, così come per certe norme del governo, si ha talora l’impressione che non siano troppo prescrittive, date le diverse retromarce, talora frutto di pressioni politiche o mediatiche.

In conclusione, a volte sembra che l’Italia sia il paese «dove le regole non esistono / esistono solo le eccezioni», come dice una nota canzone di Jovanotti. Se non si è sicuri che le regole servano in vista di fini determinati, anziché inseguire le eccezioni, invalidando le regole stesse, sarebbe opportuno pensarci meglio. La sceneggiata dei “mercanteggiamenti” sulle regole, cui si assiste da settimane, è desolante. La pandemia passa, la sensazione che il diritto non sia una cosa certa, cioè fondata su solide basi, e forse nemmeno seria, invece resta.

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