Sono in piazza. Manifestano, come si può fare in tempi di pandemia, con le loro bandiere vecchie di storia e usando gli strumenti della modernità. Sono i metalmeccanici che lottano per il loro contratto e per il lavoro. Roma, piazza Esquilino, un centinaio di delegati con i rappresentanti di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm. Un maxi schermo li collega con altre piazze italiane. Napoli, Aosta, Bari, Ancona. “Ti ricordi gli scioperi nostri negli anni passati? I cortei che partivano da Termini, dalla Tiburtina, i bus che arrivavano da tutta Italia e Piazza San Giovanni stracolma? Che nostalgia. Oggi siamo qui, distanziati e seduti. Tutti in mascherina. Non è la stessa cosa, ma pazienza».

Vincenzo è un operaio da una vita attivista della Fiom, intorno a lui ma anche nelle altre piazze italiane, tutto procede con l’ordine imposto dalla pandemia. Lo schermo rimanda immagini di presidii affollati. «Ma non eravate scomparsi, voi operai?». Vincenzo sorride. «Siamo un milione e mezzo i metalmeccanici interessati al contratto. Esistiamo e non siamo la parte residuale del Paese». Concetto che con orgoglio sentiremo ripetuto più volte anche dai leader sindacali.

Negli ultimi vent’anni con un certo furore ideologico, in tanti ci avevano quasi convinti della scomparsa degli operai. Commentatori da salotti tv snocciolavano cifre e studi per dimostrare che ormai parlare di loro era inutile, un ammuffito retaggio del Novecento. Nel 2017 in un suo rapporto, l’Istat certificò «la scomparsa della classe operaia», la sua perdita di identità causata dalla «precarizzazione e dalla frammentazione dei percorsi lavorativi». Ma noi ci siamo, ripetono anche i segretari dei tre sindacati di categoria.

Contro la pandemia

Chi è il metalmeccanico oggi, è davvero la vecchia figura dell’operaio alienato degli anni Settanta del secolo passato, oppure è altro? Francesca Re David, segretaria della Fiom: «I metalmeccanici sono due milioni, sono essenziali per l’economia di questo Paese. Sono impegnati nella siderurgia, nell’informatica, nel sistema dei servizi, nell’industria biomedicale». Insomma, non più, e da decenni, le vecchie catene di montaggio, ma fabbriche robotizzate, ospedali che funzionano grazie agli strumenti costruiti da manodopera altamente specializzata. Moderne figure professionali che vogliono essere soggetto politico attivo, dire la loro sull’economia e sullo sviluppo del Paese. Anche in tempo di Covid e pandemia. «Noi vogliamo discutere il modello industriale. Le politiche industriali del Paese in questi ultimi anni le stanno facendo le multinazionali e si è vista la fragilità che questo comporta. Il governo non può rimanere indifferente».

La differenza tra 40 e 150 euro

I metalmeccanici chiedono 150 euro lordi di aumento in busta paga, gli industriali resistono e ne offrono 40 “spalmati” su tre anni. La discussione potrebbe finire qui, ma salari e aumenti ci parlano di vite quotidiane, di famiglie che devono mettere insieme pranzo, cena, bollette e figli da mandare a scuola.  Giancarlo, lavoratore Abb di Frosinone, una fabbrica ad alta specializzazione per prodotti e sistemi di bassa tensione. «Vuoi sapere quanto guadagno? Milletrecento euro al mese, sono in fabbrica da 1997, ai tempi della lira, il mio salario era di 1 milione e 800mila, tiro avanti perché mia moglie lavora e due stipendi ci assicurano una vita dignitosa. Basta non strafare e accantonare sogni e desideri. Per i monoreddito va molto peggio con questi salari».

Operaia in collegamento da Asti: «Quaranta euro? Gli industriali si devono vergognare, non bastano neppure a pagare la mensa scolastica per mio figlio . Signori, mettetevi una mano sulla coscienza, ma soprattutto mettetela sul portafogli». Storie ordinarie di vite difficili. E statistiche.

Lo studio sui salari italiani della Fondazione Di Vittorio della Cgil, è esplicito: «A inizio millennio, in Italia il salario lordo medio era pari a 29,mila euro l’anno, adesso si attesta sui 31mila. Ben lontano dai 39mila della Francia, dai 42mila della  Germania e dai 47mila del Belgio».

«Noi chiediamo un aumento del salario perché altrimenti il mercato non riparte, dobbiamo combattere le disuguaglianze che la pandemia ha mostrato in tutta la sua potenza», dice la segretaria della Fiom Cgil.  Ma insieme alle disuguaglianze e a quello che gli esperti chiamano il lavoro “povero” (5 milioni di lavoratori che arrivano a mala pena a 10mila euro l’anno), c’è un altro dramma. L’incertezza del lavoro, la paura di perdere salario e reddito, il terrore di finire nel buco nero della “mobilità”.

Luciano Doria è un metalmeccanico della Whirlpool di Napoli. Trecentocinquanta operai a tempo indeterminato e un indotto che impegna almeno altri mille lavoratori, per la produzione di elettrodomestici di qualità. «La nostra è una situazione singolare, la fabbrica ci paga per non lavorare. La strategia è chiara: vogliono delocalizzare».

Gli operai presidiano lo stabilimento ventiquattr’ore al giorno. La proprietà, che ha firmato accordi col governo, non ha mai parlato di chiusura, ma solo di sospensione della produzione. I macchinari non sono stati rimossi, né sono state avviate procedure per gli ammortizzatori sociali.

«L’azienda afferma di non aver ricevuto danni dalla pandemia, anzi, dicono che il fatturato è aumentato e pure il valore del pacchetto azionario. Nel frattempo se ne fottono del governo e degli accordi sottoscritti. Tutti gli scenari sono aperti e noi viviamo nell’incertezza più totale». Luciano ci spiega con parole semplici cos’è l’incertezza: «Non sai quanto durerà il tuo salario. Non puoi programmare il futuro tuo e dei figli. Vivi alla giornata temendo il peggio».

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