Il Consiglio d’amministrazione Rai della settimana prossima esaminerà i piani editoriali proposti dall’amministratore delegato e così sapremo quanto sia fondata l’attesa per l’assalto della destra al fortino di Rai Tre. A naso pensiamo che nella dirigenza Rai non siano coltivate le vocazioni ad assalti di alcun genere, tant’è che, pur avendo trascorso un quadriennio ai piani alti, non abbiamo memoria di furie reciproche da destra o da sinistra, salvo il normale brigare per i posti che è la sorte e il colore d’ogni azienda. Aggiungi che l’azienda è tenuta a stecchetto quanto a soldi e che solo la consociazione parlamentare può fornirglieli, per cui è sempre consigliabile trattenere le truppe ansiose di saccheggio ed evitare di fare i bulli per davvero. Le cronache comunque ci diranno se l’ammuina partorirà elefanti o topolini.

Quel che invece è certo è che il fortino di Rai Tre non è più un fortino perché sono trent’anni che le reti Rai hanno cominciato a smettere di essere le fortezze d’una volta e da un anno sono state abrogate formalmente, sostituite da strutture di produzione che lavorano per generi (fiction, intrattenimento, documentari, etc.) trasversalmente e non come organismi subordinati a direttori di canale. Col che la metà della Rai che fa i programmi s’acconcia alla situazione d’ogni altra tv su questa Terra dopo il cinquantennio delle “reti”, iniziato con la riforma dell’azienda pubblica concepita nel corso dei Settanta in funzione di una lottizzazione al passo con quei tempi.

Le reti della riforma 

La Rai lottizzata nei Settanta era organizzata per reti, intese come “aziende nell’azienda”, ciascuna col proprio direttore, nominato di fatto da un partito e dotato di risorse e poteri da usare a discrezione. Dapprima la rivalità scatenata tra i canali della stessa azienda fece sprizzare un monte di energie di cui i due primi direttori (Scarano e Fichera) furono all’altezza. Poi seguirono alti e bassi, mentre irrompeva, di contrabbando, la tv commerciale, finché nel 1987 Angelo Guglielmi si reinventò la terza rete smuovendo contenuti e linguaggi al punto che baciapile e illuministi riuscivano senza stonature a figurare nello stesso palinsesto: da Raffai a Fazio, da Lubrano a Luttazzi, da Ferrara a Curzi, da Santoro ad Augias, l’elenco dei conviventi è lungo e potrebbe a lungo continuare.

L’impresa tuttavia era figlia di Guglielmi, ma anche di quei tempi di muri che cadevano e Prima Repubblica al tracollo. Un disordine provvidenziale per le avventure editoriali della rete che divenne incontrollabile da qualsiasi potentato esterno perché, a differenza di politici e intellettuali, per così dire, tradizionali, imparava giornalmente dal contatto con il pubblico e tracciava la sua strada da sé sola. Al punto che proprio l’appuntamento giornaliero con Rai Tre funse per qualche tempo da succedaneo alla smarrita identità collegata ai partiti, con la conseguente e laica “divizzazione” dei conduttori valorizzati dalla permanenza in video.

Da questo intreccio di talento interno e condizioni esterne scaturì l’esplosione degli ascolti e la messa a fuoco di una versione moderna, rispetto a quella di Rai Uno, del ruolo nazional popolare del servizio pubblico.

Il dopo delle reti

La forza di quella terza rete prese a scemare non appena le condizioni esterne vennero a cambiare e la destra, raggrumata attorno a Berlusconi, redistribuì le carte di politica e televisione imponendo il duopolio con una Rai purificata da dinamiche eccessive perché costretta a un ruolo di puntello. Il caso volle che proprio allora arrivasse per Guglielmi l’età della pensione, ma ormai per quelli come lui non c’era spazio. Ebbene, quando oggi si parla di assalto al fortino di Rai Tre va ricordato che quel fortino ha iniziato a diroccarsi tre decenni orsono sia sotto gli attacchi del Consiglio di Moratti sia nel quadro di un progressivo superamento delle reti-aziende autonome sul serio. E poi, a essere sinceri, delle reti concorrenti tra sé stesse nella Rai era venuta meno la funzione perché erano nate per esprimere le culture dei partiti che avevano fondato la Repubblica e organizzavano interessi, odi, amori e passioni del paese che nel frattempo aveva voltato pagina.

A questo punto qualcuno potrebbe domandare perché la reductio ad unum intrapresa nel settore dei programmi non abbia invece, in tutti questi anni, neppure sfiorato le testate giornalistiche (Tg Uno-Due-Tre) che impavide si perpetuano in tripletta a differenza delle tv mondiali d’ogni dove. Questione seria e piena di risvolti per cui qui ci limitiamo ad azzardare che quell’abbondanza funzionale alla lottizzazione dei partiti ancor più si presta alle  marche identitarie “personali” di leader e leaderini, in una politica divenuta epifenomeno dei media.  

Sta di fatto che la Rai nell’ultimo trentennio è stata tenuta a galla non da se stessa, ma da convenienze esterne, di Mediaset, Monopolio con la “m” maiuscola, e del ceto politico con la “p” minuscola, mentre i periodici tronfi di Sanremo, i ritorni di Celentano, gli show di lungo corso sono stati la musica sulla tolda di un Titanic squarciato dalle falle. Così, per fare qualche esempio: Berlusconi (il “liberale”) ha reintrodotto la Commissione di “nomine” e vigilanza sulle spartizioni nell’azienda; Renzi ha tagliato il canone, e non poco, sperando in un briciolo di voti che non vennero; Conte ha distolto parte del canone a favore d’altri; Draghi, per colmo di misura, ha compresso il tetto ai ricavi pubblicitari.

La lottizzazione “diffusa” 

Quanto agli assalti temuti o sperati alle vestigia di Rai Tre conviene tenere presente che da tempo l’avvizzimento dei poteri aveva trasformato i direttori di Rete in garanti di produttori, conduttori e autori politicamente sponsorizzati e in pratica titolari di programmi e relativi spazi in palinsesto. Per cui non è da oggi che la materia delle nomine, un tempo colorata da tragedia, è diventata questione adatta a stampa rosa e Dagospia, fra il cosa ne sarà di questo o quella o il perché spezzare il cuore all’audience che li adora. Unica variante la cronaca giudiziaria giacché, oltre ai tabloid, anche i tribunali non si sottraggono a immaginare palinsesti imponendo il reintegro di quelli senza adeguata (?) giusta causa cancellati.

Facci e oltre

Non ci emoziona affatto la minaccia che, leggiamo da Repubblica, di un Filippo Facci, umbratile di destra, che arrivi a calpestare il sacro suolo di Rai Tre in cui sorsero le imprese di Santoro (peraltro, per Facci, al rischio della pelle con gli ascolti perché gli umbratili sullo schermo non funzionano). Né ci preoccuperebbe un rimescolamento ancor più sostanziale con, tanto per dire, Chi l’ha visto su Rai Uno, Corona a fare il Geo della montagna, l’intero terzo canale intrecciato con il canaletto Rai 24 per emulare la ricchezza d’offerta (informativa, documentaria e culturale) che Sky assicura a chi la paga.

In conclusione ci pare che se, come è probabile, i membri del Cda esamineranno i piani editoriali sotto la pressione di una serie di casi personali, dovrebbero vedersela tra loro, a porte chiuse e senza telefoni che squillano, collaborando e ricattandosi a vicenda come in quei consessi sempre accade. In fondo, pur nominati dalla politica attraverso leggi sciagurate, stanno lì per questo e non per altro.

Per contro la politica può decidere di tacere o, molto meglio, d’occuparsi della Rai attraverso proposte di livello e non come sponsor di questo o quel nome fiorito in teleschermo. Sappiamo di chiedere moltissimo, perché le questioni di livello che riguardano la Rai non hanno nome e cognome e impongono proposte credibili circa il senso, la funzione, l’efficacia e l’efficienza dell’azienda di servizio pubblico, delle sue risorse, del suo rapporto, insomma, col mondo e col paese che (peraltro, avaramente) la mantiene. Questioni che si riassumono tutte nel decidere lo status dell’azienda di servizio: se autonomo o per sempre subalterno.

Detto in termini figurati, rinchiudersi nel Fort Alamo giornaliero conduce dritto dritto al massacro della politica in duelli ad arma corta. Per cui converrebbe, a guardare dall’esterno, che proprio la politica allargasse, e al più presto, il teatro della guerra.

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