La spiaggia di Tuerredda è una perla di sabbia bianchissima, un gioiello di mare cristallino a ridosso di Capo Malfatano, vicino a Teulada nella Sardegna sud-occidentale. Questo paradiso circondato dal verde della macchia mediterranea è stato salvato dalla ostinazione di un anziano pastore che, opponendosi alla deviazione del suo stradello di campagna, nel 2016 è riuscito a bloccare un progetto da 150mila metri cubi di cemento, l’equivalente di venti palazzi da dieci piani.

Ovidio Marras, novant’anni compiuti lo scorso luglio, è il piccolo Davide che insieme a Italia Nostra ha sconfitto il Golia immobiliare Sitas, Società iniziative agricole sarde, che di agricolo e di sardo aveva ben poco: dietro quel nome rassicurante c’erano infatti i gruppi Benetton, Toti e Caltagirone. Dopo aver acquisito i terreni confinanti con il podere del pastore, contavano di realizzare con il Monte dei Paschi di Siena una mega lottizzazione turistica su un tratto di costa incontaminata e quindi, ovviamente, sotto stretto vincolo di tutela.

Un unico progetto astutamente spacchettato in più lotti che, insieme a un resort da 500 posti, prevedeva ville, centri benessere e parcheggi. Peccato che nessuno avesse tenuto conto del vecchio Ovidio, comproprietario delle parti “comuni” dei terreni, che con gran disappunto aveva visto sorgere sopra il sentiero che le sue pecore percorrevano da sempre lo scheletro del gigantesco albergo, a due passi dal mare. Da lì una causa civile che ha visto prevalere le ragioni del pastore in tutti i gradi di giudizio fino alla dichiarazione di fallimento della Sitas, arrivata nel 2018 in seguito alla conferma in Cassazione dell’ordine di ripristino dei luoghi stabilito dal Consiglio di stato.

La breccia

Ora però l’assalto alla spiaggia di Tuerredda potrebbe ripartire, insieme a tanti altri progetti bloccati da anni. Infatti la Sardegna ha il nemico in casa. È la politica locale che vuole abbattere le barriere normative e tocca allo stato centrale difendere l’ambiente. Un paradosso apparentemente inspiegabile, una maledizione che si perpetua da decenni. E una contraddizione imbarazzante per le mille anime dell’indipendentismo sardo.

La giunta sardo-leghista, eletta nel 2019, ha appena sfornato una leggina interpretativa studiata per aprire una breccia nel cosiddetto Ppr, il Piano paesaggistico regionale firmato nel 2006 dall’allora presidente Renato Soru, che fino a oggi aveva resistito ai tentativi di deregulation sulle tutele ambientali nell’isola.

I primi a dare l’allarme sono stati proprio gli ecologisti, ribattezzando “Scempia-coste” la legge 21 approvata dal consiglio regionale il 13 luglio scorso, che il presidente Christian Solinas ha presentato come necessaria per sbloccare gli eterni lavori sulla superstrada Sassari-Olbia. Leggendo l’unico articolo di cui è composta, si scopre però che la norma punta a escludere in modo permanente il ministero per i Beni e le attività culturali (Mibact) dalle decisioni riguardanti la fascia costiera, i beni identitari e le zone agricole dell’isola.

Un cavallo di Troia che mira a demolire l’architrave costituzionale della copianificazione fra stato e regione, in nome di un’idea di “autonomia” che piace ai grandi gruppi del mattone ma che supera abbondantemente il perimetro dello statuto speciale della Sardegna per invadere l’area dei poteri dello stato.

Il 7 agosto scorso, dopo la raccolta di 35mila firme da parte degli attivisti del Grig (Gruppo d’intervento giuridico), il Consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la “Scempia-coste” davanti alla Consulta, rivendicando la competenza dello stato centrale sull’ambiente e sul paesaggio: la leggina violerebbe infatti gli articoli 9, 97 e 117 della Costituzione. Per gli stessi motivi il governo ha impugnato anche un’altra legge regionale, quella che proroga per l’ennesima volta il piano casa Sardegna.

La guerra legale

«La voglia di cemento in Sardegna non va mai via», dice l’avvocato Maria Paola Morittu, consigliere nazionale di Italia Nostra, l’associazione ambientalista fondata da Elena Croce negli anni Cinquanta e che ha come sua storica icona Antonio Cederna, capostipite del giornalismo ambientalista nel nostro paese.

«Hanno tentato in tutti i modi di demolire il Ppr, con centinaia di ricorsi sin dalla sua nascita, e addirittura con un referendum. Ci hanno riprovato nel 2009, con l’approvazione del piano casa in deroga, con l’idea di trasformare in ordinario uno strumento di natura temporanea. Questo di Solinas è l’ennesimo provvedimento illegittimo che ancora una volta non passerà l’esame della Corte costituzionale».

Morittu ha dato un contributo decisivo alla battaglia per Tuerredda, promuovendo il ricorso contro le autorizzazioni regionali ottenute grazie allo spacchettamento fittizio del mega progetto, con cui la Sitas aveva eluso l’iter d’impatto ambientale.

Anche se le modifiche al Ppr dovranno superare una procedura concordata tra regione e stato, come prescrive il codice Urbani, Morittu è allarmata: «Nel frattempo la “Scempia-coste” può già produrre alcuni effetti indiretti. I paesi costieri saranno meno incentivati ad adeguare i loro piani urbanistici alla legge regionale sul paesaggio. E fra i 70 comuni che si sono già messi in regola, qualcuno farà ricorso al Tar per tornare sui suoi passi a mani libere».

Assalto alle coste

Vi è soprattutto il rischio del riaccendersi di appetiti mai sopiti sulle coste sarde. Con la “Scempia-coste” in vigore, nessuno in teoria potrebbe vietare a un nuovo investitore di farsi avanti a Tuerredda: «Quella vicenda non è ancora del tutto chiusa, perché rimane in piedi il contenzioso della Sitas contro la Regione e quello relativo alla demolizione dei corpi di fabbrica già edificati, che sono ancora lì», spiega Morittu.

Lo scenario è analogo in tutta l’isola. A Olbia sembra riprendere vita, seppur fortemente ridimensionato, il vecchio sogno berlusconiano di Costa Turchese. Era il 1981 quando Edilnord sbarcava per la prima volta in Costa Smeralda, presentando un piano da 2 milioni e 185 mila metri cubi di cemento a sud di Olbia, fra Capo Ceraso e li Cuncheddi.

Costa Turchese

Quel progetto venne spazzato via nel 2003 – grazie alla cancellazione del vecchio Piano paesistico a opera del Tar – ma fu subito rimpiazzato da un nuovo piano da “soli” 250mila metri cubi (30 palazzi da dieci piani), promosso da Edilizia Alta Italia, ramo Fininvest nelle mani di Marina Berlusconi. Fu il Ppr del 2006 a dare lo stop al progetto, seppellito poi da un ulteriore pronunciamento del Tar. Oggi quel piano ritorna, con un impatto apparentemente meno gravoso, nella proposta del nuovo piano urbanistico comunale (Puc) di Olbia.

«La vicenda di Costa Turchese è emblematica, rappresenta tutte le contraddizioni della politica sarda sul tema ambientale», sostiene Sandro Roggio, architetto paesaggista che 15 anni fa collaborò con il grande urbanista Edoardo Salzano, recentemente scomparso, alla stesura del Ppr di Soru.

«Si parla di 140mila metri cubi in zona F turistica, suddivisi in due alberghi, in aree dove in teoria non si dovrebbe piantare neanche uno spillo. Ma soprattutto Costa Turchese può essere la prima spallata a cui ne seguiranno altre, perché se passa la deroga per il Puc di Olbia, il resto verrà di conseguenza. Ecco a cosa serve la legge 21. E in un momento come questo, con un’opinione pubblica disorientata e fiaccata dalla crisi economica, è più facile far passare un’operazione di questo tipo». Non sorprende che, nonostante i ricorsi, Solinas continui a godere dell’appoggio ferreo degli alleati. Un anno e mezzo fa, in piena campagna elettorale, Silvio Berlusconi aveva preteso ai primi posti nell’agenda elettorale lo smantellamento del Ppr, definendo il vincolo sulla fascia dei 300 metri dal mare «un tabù da sfatare».

La diagnosi di Roggio è infausta: «In Sardegna c’è una grande questione ambientale. E mancano gli anticorpi, a partire dalle classi dirigenti locali e a prescindere dal colore politico. Sarebbe un errore pensare alla deregulation come a un orizzonte esclusivo della destra, anche nel centrosinistra c’è chi non riesce a rinunciare alla prospettiva edilizia. La voglia del mattone torna ciclicamente, come se non esistesse alcuna alternativa di sviluppo. C’è da chiedersi perché la classe dirigente locale punti a operazioni che avvantaggiano pochi senza lasciare nulla al territorio. È come avere il nemico in casa».

582 chilometri d’oro

Per capire qual è davvero la posta in gioco basta guardare una cartina geografica della Sardegna: su 2.341 chilometri di costa, 1.529 (il 68 per cento) sono fatti di roccia. Sono solo 582 i chilometri di costa sabbiosa, un quarto del totale.

«È lì che si nasconde il bottino», spiega Alessio Satta, presidente della Fondazione Medsea, iniziativa non profit per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Satta è stato anche direttore della Conservatoria delle Coste, l’Agenzia regionale per lo sviluppo sostenibile delle aree costiere fortemente voluta da Renato Soru nel 2008 sul modello del francese Conservatoire du Littoral. Con Tore Dessena ha prodotto lo studio Turismi non per caso che spiega, numeri alla mano, l’antieconomicità del modello “mordi e fuggi”, basato sull’aumento della capacità di accoglienza attraverso nuove volumetrie che puntualmente rimangono vuote per nove mesi all’anno.

In Sardegna nel 2017 esistevano 206mila posti letto turistici, con un utilizzo netto bassissimo: appena il 44 per cento nel periodo di apertura delle strutture ricettive, da maggio a ottobre.

Ancora peggio l’utilizzazione lorda, calcolata su 365 giorni all’anno: appena il 21 per cento. «Significa – spiega Satta – che il problema del turismo in Sardegna non riguarda la capienza degli alberghi o delle seconde case. È un paradigma che va completamente rivisto».

In passato il modello imperante in Sardegna è stato quello importato del “turismo di rapina”.

Il turismo migliore

Ma il turismo non ha nulla a che fare con le cubature alberghiere, ha a che fare con il territorio e con le persone che ci abitano. «Le esperienze migliori», sostiene lo studioso, «sono quelle portate avanti da piccole strutture ricettive che riescono a raggiungere tassi di riempimento anche dell’80 per cento all’anno.

La formula è semplice: offrire un modello di esperienza legato al territorio, alla cultura, all’identità dei luoghi, capace di differenziarsi in modo originale nel mercato internazionale. Tutto questo lo si fa con una strategia di filiera, in grado di connettere l’offerta turistica ai diversi settori produttivi e non devastando l’ambiente».

Invece la tradizione politica dell’isola prevede un solo canovaccio: promettere benessere attraverso la cementificazione.

Il grande tabù

Nessun candidato governatore si azzarda a promettere una difesa rigorosa del paesaggio, sarebbe considerato un folle, un suicida. La Sardegna il nemico in casa ce l’ha da sempre. Il nuovo attacco alle coste sferrato dal presidente Solinas – oggi salviniano – è solo l’ennesima replica di una partita politica infinita, giocata a spese del paesaggio e dei beni comuni nell’isola. Ne sa qualcosa Renato Soru, presidente del Pd che sulle norme a tutela delle campagne contenute nel suo piano paesaggistico prima è caduto e poi ha perso la rielezione.

Il forzista Ugo Cappellacci ha battuto Soru alle elezioni del 2009 con la promessa di cancellare i vincoli, ma non è riuscito a mantenerla.

Il renziano Francesco Pigliaru, suo successore (2014-2019), è naufragato come Soru sulle scogliere che doveva proteggere, ma per motivi opposti: la sua nuova legge urbanistica, piena di insidiose deroghe al Ppr, dopo anni di faticosa gestazione è stata ritirata all’ultimo minuto perché è venuto a mancare il sostegno di una parte della maggioranza. In quel passaggio, tutto interno al travaglio del centro-sinistra isolano, c’è ancora una volta la lotta intestina fra “revisionisti” e “difensori” del paesaggio, che sfocia in un clamoroso scontro istituzionale fra regione e governo nazionale.

Nell’agosto 2017 il Consiglio dei ministri ha bocciato una leggina di Pigliaru propedeutica al varo della nuova legge urbanistica. Le disposizioni contenute nel testo sono da considerarsi, secondo Palazzo Chigi, «fuori dalle competenze statutarie dell’isola».

Scontro istituzionale

La regione risponde annunciando ricorso e chiedendo esplicitamente, per bocca dell’assessore all’Urbanistica Cristiano Erriu, la testa di Fausto Martino, allora soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici della Sardegna, un vero e proprio prefetto del paesaggio, rappresentante dello stato e controllore dell’operato delle amministrazioni locali. Una dichiarazione di guerra.

A difendere le scelte del governo è intervenuta con una nota durissima la sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni, sottolineando il pieno allineamento fra le scelte dell’esecutivo Gentiloni e le valutazioni del ministero guidato, allora come oggi, da Dario Franceschini: «Con questo atto il governo conferma che la tutela del paesaggio è entrata nell’agenda politica nazionale», scrive la sottosegretaria, con un no forte e chiaro alle deroghe sul paesaggio, nel momento in cui in Sardegna si affacciavano i grandi investimenti del Qatar, sponsorizzati da Matteo Renzi, con l’ospedale Mater Olbia ad aprire la strada per lo sbarco degli emiri.

La lettera di Borletti Buitoni culmina in una netta presa di posizione politica: il governo ha deciso di mettersi di traverso al tentativo di deregulation di Pigliaru, scrive, «nonostante la famiglia politica della giunta e del ministro competente sia la stessa» e difendendo «l’opera meritoria delle proprie sovrintendenze».

Terra di rapina

Nella lettera c’è una resa dei conti tutta interna al Partito democratico – in quel momento al governo a Roma e a Cagliari – e una presa di distanze netta anche dalle strategie del precedente governo Renzi, a cui Pigliaru si era allineato sin dall’inizio aprendo le porte agli investitori arabi. Ma soprattutto c’è la presa d’atto che il conflitto sull’ambiente tra stato e regione Sardegna è permanente e non viene attenuato dall’omogeneità politica dei governi centrale e locale.

«Perché avviene tutto questo in Sardegna? È il solito discorso della rendita e del profitto, tanto caro a Edoardo Salzano, il padre del Ppr». Fausto Martino, il sovrintendente osteggiato dal governo regionale, ha abbandonato l’anno scorso la trincea di Cagliari per tornare a Salerno, sua città natale. Per anni si è opposto ai tentativi di revisione del Ppr portati avanti da maggioranze di ogni colore.

Una posizione scomoda la sua, che lo ha visto protagonista di decisioni clamorose come quella che annullò l’autorizzazione edilizia del comune di Cagliari per l’intervento sulla necropoli punica di Tuvixeddu, pronta a essere sommersa da una colata di cemento. Martino ha un’idea molto precisa sul nuovo attacco alle coste sarde: «Molti imprenditori non si accontentano del profitto: vogliono la rendita. La Sardegna è un paradiso e il valore di un immobile cresce quanto più si è vicini al mare. Solo che la privatizzazione di un bene collettivo di grande valore equivale a una rapina vera e propria, ed è contrario alla Costituzione». Una storia antica.

«La Sardegna – spiega Martino – è da sempre terra di rapina: dai disboscamenti iniziati in epoca romana, e condotti con ferocia dai Savoia, alle attività minerarie, dall’insediamento di industrie insalubri al nuovo assalto delle rinnovabili: l’isola viene vista come una piattaforma nel Mediterraneo, da sfruttare o dove collocare le attività che non trovano posto nel continente».

Per l’ex soprintendente però si può ancora invertire la rotta, «con una maggior presa di coscienza da parte della società civile e utilizzando gli anticorpi della Costituzione che a partire dall’articolo 9 impone l’obbligo di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione».

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