Ogni anno, nel mese di maggio, le scuole d’Italia sono impegnate nelle prove Invalsi, che coinvolgono alunni e studenti della II e V primaria, della III secondaria di primo grado, della II e V secondaria di secondo grado. Le prove dovrebbero valutare le competenze di base in tre ambiti: italiano, matematica, inglese. Ogni anno poi, quando il caldo di luglio comincia a svuotare le città, al ministero vengono presentati i dati. E i giornali hanno già il dito sul bottone rosso, pronti a dare l’allarme. Evidentemente chi lavora dentro Invalsi lo sa, se nella prefazione al report il presidente Roberto Ricci ci tiene a mettere in guardia dalle semplificazioni: «Il quadro sullo stato degli apprendimenti in alcuni ambiti di base che emerge dalle prove Invalsi 2023 è molto complesso, difficilmente sintetizzabile in poche considerazioni, certamente impossibile da ricondurre a una visione semplicistica o riduttiva della nostra scuola» (p. 4).

Senza troppa fantasia, infatti, si continua a strepitare ogni anno che uno studente su due non capisce quello che legge. C’è però tutta una dimensione delle prove che non trova spazio tra gli analisti e che riguarda due aspetti fondamentali. La somministrazione dei test, se ci si sofferma a valutarne il senso dal punto di vista degli studenti, sembra assumere la forma di una violenza istituzionale. Non solo perché l’Invalsi è obbligatorio e in due casi costituisce requisito d’accesso alla prova finale (III media e V superiore), ma anche e soprattutto perché chiede agli studenti di contribuire – con la frustrazione di non saper rispondere – ad analizzare lo stato dell’istruzione nel paese. Senza dare nulla in cambio.

Ogni docente di secondaria di secondo grado a cui sia toccata la sorveglianza durante le prove sa bene quanto sia difficile convincere ragazzi e ragazze a prenderle seriamente; questo per due motivi principali. Il primo è che, dopo averli educati per anni a impegnarsi solo per il fine del voto, è sempre complicato riorientare, soprattutto in attività sporadiche, la motivazione verso altre tensioni, come ad esempio il senso civico. La seconda è che per l’insegnante è veramente complicato sostenere con credibilità l’importanza di queste prove, facendo leva sul senso di responsabilità verso lo stato, quando lo stato continua a mettere la scuola in fondo alla lista delle priorità di investimento.

Quello che solitamente cerco di dire alle mie classi è che uno strumento di monitoraggio a livello nazionale è utile per orientare le politiche scolastiche di un paese. Spesso, dove mi è stato possibile, ho avviato percorsi di educazione civica in cui analizzavamo i report Invalsi, non solo relativi alle prove. Si rivela una lettura illuminante: vedersi ricollocati in un contesto nazionale dominato dall’ingiustizia sociale fa sentire tutti meno soli/e. Questo è il secondo tema, che purtroppo non occupa mai i titoli dei giornali. C’è una cosa che i risultati delle prove Invalsi ribadiscono ogni anno, e non si tratta della comprensione del testo: la scuola non è un fronte di lotta contro le disuguaglianze, ma la prima linea della riproduzione delle ingiustizie sociali. 

Il grande interesse delle rilevazioni, infatti, sta nel poter mettere in relazione gli esiti nelle competenze in italiano, inglese e matematica con altri indicatori socio-economici. Purtroppo si tratta di un rapporto dolorosamente lineare: più sei povero meno opportunità di apprendimento hai. E la scuola, con l’avanzare dei cicli scolastici, non argina il processo. Il risultato è che la forbice si allarga sempre di più. Per non parlare delle intersezioni, i luoghi dove si incontrano l’essere povero/a, l’essere femmina, il vivere al sud o in periferia, l’avere un background migratorio, il frequentare un istituto tecnico o professionale: intersezioni che si allargano fino a diventare veri e propri buchi neri che fagocitano ogni possibilità di accesso all’istruzione.

Più che uno studente su due non capisce quello che legge, quindi, è utile concentrarsi su altri dati. Se vogliamo parlare di comprensione del testo, al termine della scuola media studenti provenienti da famiglie socialmente favorite hanno già accumulato un vantaggio stimabile in quasi mezzo anno di apprendimento sui loro colleghi, mentre gli studenti stranieri ne hanno accumulati circa due di ritardo se sono di prima generazione, un anno se di seconda. Tra gli/le studenti del Nord Ovest e quelli/e del Sud, invece, si è già scavato un solco di più di un anno di apprendimenti di differenza.

In matematica, invece, le ragazze – che in quinta elementare se la cavano meglio dei loro colleghi maschi – alla fine della scuola media sono rimaste indietro di metà anno scolastico. Altro dato interessante – questo sì degno di un bell’approfondimento – è che i/le ripetenti realizzano un punteggio mediamente più basso di 22,4 punti. Scrivono i ricercatori e le ricercatrici: «Si conferma, quindi, che l’istituto della ripetenza non permetta, nel complesso, di far recuperare i deficit di apprendimento» (p. 42). Detto in altre parole: ripetere l’anno non è uno strumento efficace per imparare quello che non hai imparato l’anno precedente. Bocciare non serve.

I progressi in inglese arrivati in pandemia

Una riflessione più profonda andrebbe dedicata all’unico grafico che impenna, quello dell’inglese. Dal 2019 ad oggi, la competenza in inglese al termine della secondaria di primo grado è stata costantemente in aumento. il 54% ha raggiunto il livello il B2 nella prova di lettura, 2 punti percentuali in più rispetto al 2022, il 41% in quella di ascolto, con +3% rispetto al 2022 e il 6% in più rispetto al 2019, l’ultimo anno prima della pandemia. Così come ricercatori e ricercatrici Invalsi avanzano l’ipotesi che il calo generalizzato in matematica e italiano sia imputabile all’onda lunga del post-pandemia, allo stesso modo potremmo considerare che i miglioramenti in inglese siano collegati a una possibilità comunicativa pressoché illimitata,  dovuta alla frequentazione di internet, delle piattaforme social, delle serie tv in lingua originale. Un percorso di formazione estraneo e parallelo alla scuola. 

Nella secondaria di secondo grado emerge dolorosamente un altro dato: nei professionali le competenze di comprensione del testo sono per la maggior parte collocate nei livelli inferiori della scala (1 e 2). Una specie di certificazione di cittadinanza di serie B, a cui resta preclusa la comprensione di testi complessi. Anche in matematica, come sottolinea lo stesso rapporto, i dati sono preoccupanti per quanto riguarda gli istituti professionali.

Lo scarto tra chi frequenta un liceo (classico, scientifico, linguistico) e chi frequenta un professionale, quindi, si può quantificare in più di due anni di apprendimenti di differenza in seconda superiore. Lo stesso report dedica un intero capitolo all’analisi dell’equità del sistema scolastico. In estrema sintesi, la nostra scuola riesce a compensare le difficoltà di contesto alla primaria (seppur con grandi differenze territoriali), ma la dispersione implicita – cioè la capacità di raggiungere livelli di apprendimento adeguati – aumenta con l’avanzare nei cicli scolastici.

Se si volesse guardare davvero a quello che di importante ci dicono questi dati, si collaborerebbe senza dubbio a spostare l’attenzione sui drammi della scuola, sui ragazzi e sulle ragazze che perde, che lascia indietro, sulla sua incapacità di essere democratica, di rispondere al dettato costituzionale, di essere davvero un dispositivo di uguaglianza e di emancipazione.

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