«Pensavo di morire. Sono stata quattro mesi con la paura che mi togliessero i bambini. Già ne avevo dati due allo Stato. Gli altri no!». Mariana (nome di fantasia) di figli ne ha 6. È una donna rom che vive in uno dei tanti campi che Roma ancora ha, nonostante le condanne internazionali all’Italia e la promessa di superamento della sindaca Virginia Raggi. La famiglia di Mariana è bosniaca, ma lei la Bosnia Erzegovina non l’ha mai vista in vita sua, ha sempre vissuto in Italia, nei campi. Senza mai una casa vera, e senza documenti: mai avuti, come tanti e tante rom nella capitale.

Ed è proprio dall’incontro con la burocrazia che cominciano i guai di Mariana. Quando la donna fa richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari - a causa della malattia del figlio più piccolo, l’iter si avvia. Un’assistente sociale la va a trovare, redige una relazione su di lei, il marito e i figli, e alla fine il tribunale dei minori emana un decreto di sospensione della patria potestà su tutta la prole. Salta anche il permesso di soggiorno, perché “senza” più figli, Mariana può essere espulsa. «I paradossi del sistema», spiega un mediatore sociale che chiede di rimanere anonimo. «Per fortuna l’assistente sociale si è resa conto di quello che aveva fatto, ha chiamato il tribunale, ha redatto una seconda relazione più positiva e l’iter per mandare i bambini in casa famiglia è stato bloccato. Alla madre è stato annullato il foglio di via, ma dovrà rifare tutto da capo per il permesso di soggiorno». L’udienza è prevista per settembre. Al padre, invece, il decreto di espulsione non è stato revocato. «Se lo fermano lo mettono in un CIE». Oggi «la povertà è una colpa dei genitori», prosegue l’anonimo mediatore sociale.

Se l’Italia viene condannata dalla Corte europea dei diritti umani perché alle mamme migranti, spesso vittime di tratta, i figli vengono tolti a volte con troppa facilità - come Domani ha raccontato in un’altra inchiesta - alla popolazione rom non va meglio. «Se sei povero, straniero o rom - continua l’operatore – è molto facile che ti piombi addosso un decreto di allontanamento per i tuoi figli». È il sistema, ancora una volta. E il peccato originale è quello della povertà. «Il benessere dei bambini è solo economico, la sfera affettiva viene dimenticata. La famiglia povera non è adeguata. Ma uno Stato sociale che permetta di cambiare quella condizione, dall'altra parte, non c’è».

Dal borseggio all’elemosina 

A little girl speaks to a volunteer assisting her with online schooling on a computer provided by the Good House, or Casa Buna in Romanian, an association founded by Valeriu Nicolae, helping underprivileged children have access to education, in Nucsoara, Romania, Saturday, Jan. 9, 2021. Nicolae and his team visited villages at the foot of the Carpathian mountains, northwest of Bucharest, to deliver aid. The rights activist has earned praise for his tireless campaign to change for the better the lives of the Balkan country’s poorest and underprivileged residents, particularly the children. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Parlare di rom è sempre faticoso: la loro stessa esistenza viene vista come difficile. Fino a tre anni fa Mariana faceva la borseggiatrice. Ma quando è rimasta incinta dell’ultimo figlio ha deciso di smettere: ora chiede soldi sotto alla metropolitana. Mostra i suoi figli in foto con orgoglio ed è arrabbiatissima con le assistenti sociali. «Sono furbe, ti prendono i figli e ti promettono che li potrai rivedere e che torneranno da te. Poi però non ti fissano i colloqui e non li vedi più». Pensare che è stata lei stessa a portare la figlia più grande in casa famiglia, visto che si ostinava a non andare a scuola. «Ho messo un sasso al posto del cuore, le ho fatto la valigia e l’ho portata lì. Ha finito la terza media, e fra poco a 18 anni potrà uscire e fare quello che le pare».

Tutti i figli di Mariana hanno la terza media, tranne la più piccola che è alle elementari. Lei ha smesso di rubare, ha aderito a tutti i piani del Comune per la fuoriuscita dai campi. Per questo quando l’hanno minacciata di portare tutti i suoi figli in casa famiglia le è sembrato ingiusto. Ha vissuto quei mesi nel terrore, perché le era già capitato. «A 16 anni ho partorito il primo figlio: era molto malato, aveva bisogno di tante cure. Nel campo non ce l’avrei fatta, per questo l’ho dato in adozione. Invece Lucia (nome di fantasia) me l’hanno tolta quando ero in carcere: aveva 3 anni e mezzo e mia madre l’ha portata a fare l’elemosina. Quando me l’hanno detto, mentre ero ancora dentro, ho smesso di mangiare. Pensavo di diventare matta». .

Una volta libera Mariana ha preso un avvocato e ha provato a contestare lo stato di abbandono, decretato - dice la donna - non per l’accattonaggio ma perché alla bambina mancavano i vaccini. Un po’ Mariana lo ha capito: sa che avrebbe dovuto vaccinare la bimba, anche se sembra non averlo fatto più per motivi logistici che altro. Racconta che il giudice, quando ha fatto ricorso per riavere Lucia, non è stato cattivo. Ma quasi comprensivo. «Mariana - gli avrebbe detto - tu sei una brava madre. Gli altri figli te li lasciamo. Ma questa piccola no». Il giudice in Corte d’Appello le ha dato torto e lei non ha più visto la figlia. Probabilmente è stata adottata.

Il contesto e i numeri

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Sui figli dei rom allontanati dai genitori e messi in case famiglie, dati in affidamento o adottati c’è già una corposa letteratura. L’antropologa Carlotta Saletti Salza, nel 2010, ha pubblicato un volume molto duro: Dalla tutela al genocidio?, frutto di una ricerca negli archivi di alcuni tribunali minorili italiani. Già lì emerge l’alto numero di decreti di adozione di bambini rom, che rischia di celare tra l’altro pregiudizi nel sistema e tentazioni di assimilazione culturale. Un trend confermato dal dossier del 2013 dell’Associazione 21 luglio sulle adozioni dei minori rom in emergenza abitativa nella Regione Lazio. Secondo quanto emerge nel documento, su un totale di 1.416 aperture di adottabilità in sette anni, i rom costituiscono il 14 oper cento. Le sentenze registrate dal 2006 al 2012 inerenti l’adottabilità di minori rom residenti nei “campi” sono 202: il 52 per cento è di sesso femminile. Il 68 per cento possiede cognomi “slavi” (macedoni, montenegrini, bosniaci, serbi), il 27 per cento rumeni, il 4 per cento cognomi di  famiglie franco-marocchine e solo l’1 per cento è di famiglia italiana.

Su 202 casi, 117 - ovvero il 58 per cento del totale dei minori rom oggetto di sentenza - «sono stati effettivamente dichiarati adottabili, 47 casi (il 23 per cento) si sono chiusi con una sentenza di non luogo a provvedere», mentre 38 casi (il 19  per cento) erano all’epoca ancora in attesa di giudizio definitivo. Sul totale, «il 50  per cento dei minori oggetto di una sentenza di apertura di adottabilità ha meno di 7 anni e il 30  per cento meno di 3».

«Non è cambiato molto da allora», commenta oggi Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio. «Il fenomeno è proporzionale alla condizione di marginalità e di povertà. Lo Stato, invece di rispondere con l'articolo 3 della Costituzione per cui la Repubblica dovrebbe rimuovere le cause che limitano di fatto l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, più facilmente procede con questi allontanamenti che finiscono per diventare adozioni quando si tratta di bambini in tenera età». E con la crisi economica, e con l’aumento delle nuove povertà questo fenomeno non potrà far altro che crescere.

«Lo Stato toglie i bambini, ma questo ha un costo altissimo», ricorda il presidente dell’associazione che si occupa di rom a Roma. Già, perché un bambino ospitato in una casa famiglia costa alla regione Lazio circa 2mila euro al mese. «Abbiamo conosciuto mamme a cui hanno tolto 5 bambini, il cui mantenimento costa 10mila euro al mese, 120mila l’anno solo per quel nucleo. Con quei soldi si sarebbero potuti realizzare molti progetti di aiuto più proficui, chiosa Stasolla. «Le madri non sempre hanno gli strumenti per fare ricorso e per capire cosa sta succedendo», aggiunge. «Ci sono casi in cui la donna, quando le tolgono il bambino, non sa cosa fare e scappa - e naturalmente diventa ancora più incapace come genitore». E poi c’è il ruolo dei servizi sociali e della burocrazia. «Ci sono campi nomadi in cui l'assistente sociale ha paura a entrare, quindi redige le sue relazioni sulla base del sentito dire. E ci sono notifiche del tribunale che non vengono recepite per motivi logistici. Basta poco: il giudice convoca, i genitori non si presentano perché non è arrivata in tempo la notifica o perché non hanno capito cosa dovevano fare, e quello diventa un caso conclamato di abbandono».

Secondo le fonti di Domani, però c’è stato un aumento di segnalazioni da autunno in poi nella capitale, i motivi non sono chiari. «Almeno una volta a settimana una famiglia mi chiama per possibile allontanamento di minori» dice la nostra fonte. Domani ha provato ripetutamente a chiedere al Comune di Roma e ad un Municipio dove insiste un grosso campo rom di parlare con i servizi sociali, che sono notoriamente “gli occhi dei giudici minorili”. L’Amministrazione comunale ci ha risposto di non avere dati dei minori rom nelle case famiglia e che «l'allontanamento dalle famiglie lo dispone il tribunale dei minorenni su proposta della procura. Se sono colpiti più di altri la procura avrà visto che ne ricorrono i presupposti».

Campi e stereotipi 

 Melita Cavallo è stata presidente del Tribunale per i minorenni di Roma e giudice minorile a Milano e a Napoli. Di storie ne ha viste tante, tantissime. «Potrei scrivere un libro». C’è un caso che ricorda tra i tanti: siamo a Napoli. «Mi è rimasto nel cuore: tre bimbi, erano grandicelli, li abbiamo presi che avevano 5 o 6 anni», racconta. «Bambini gioiello, intelligentissimi. Sono stati in una struttura ottima, la migliore che avevamo all’epoca, dove i genitori potevano incontrarli. Una domenica avevano insistito per portarli fuori a prendere un gelato. L’uscita è stata autorizzata, ma quei tre bambini sono spariti. Pare che li abbiano portati in Spagna. Di certo non li hanno portati a studiare, ma a tenerli come tengono loro spesso i bambini», chiosa Cavallo. «Poi sì, ci sono anche persone che, pur essendo rom, sono abbastanza attente e, se prese in carico, capiscono il bene dei loro bambini. Ma sono l’eccezione: i più non rispondono a quello che il giudice cerca loro di fare capire nel migliore dei modi, per il bene di quei bambini».

Come già registrato per i figli di donne migranti, anche nel report dell’Associazione 21 luglio vengono riportate testimonianze che mostrano «una conoscenza estremamente lacunosa e stereotipata delle comunità rom». La stessa Melita Cavallo lo conferma. «Lo stereotipo scatta perchè la situazione è diffusa», spiega. Tutti i campi hanno delle deficienze: ma invece di darsi da fare per superarle si aspetta che tutto venga dall’alto e si deteriora quello che c’è», dice la giudice. Ma le ragioni che vengono addotte per allontanare questi bambini, avverte l’Associazione 21 luglio nel dossier, «sono spesso proprio quelle condizioni abitative insostenibili che coincidono con quanto l’Amministrazione comunale realizza con le proprie politiche, per cui il soggetto ‘i genitori’ potrebbe essere facilmente sostituito con la figura del Comune di Roma».

E ancora: «Se da un lato un’istituzione da decenni si occupa di segregare i rom in «villaggi» al di fuori del Grande Raccordo Anulare, di sgomberare tutti quelli che non rientrano negli spazi istituzionali a loro riservati e dall’altro lato un’altra istituzione giudica tali ambienti inadeguati per lo sviluppo psico-fisico dei minori e ritiene opportuno allontanare i figli dai genitori anche alla luce delle condizioni abitative, è possibile parlare di schizofrenia istituzionale?», si chiede l’Associazione.

«Credo ci sia anche una resistenza forte da parte delle famiglie rom ad adeguarsi a quello che ti chiede quello Stato che bene o male ti dà una casa» con i campi rom, aggiunge Melita Cavallo. «La persona che viene aiutata non si dà aiuto. È come se ci fosse un’indolenza congenita, la responsabilità non è addebitabile alle istituzioni. Se dici loro ‘ti voglio aiutare, tuo figlio lascialo, lo seguo e quando sarà più grande verrà da te’ ti rispondono ‘no, deve stare con me, sono io la madre’. E questo a me non sta bene come persona, società comunità e diritto».

Case famiglie, affidi e adozioni

A little girl speaks to a volunteer assisting her with online schooling on a computer provided by the Good House, or Casa Buna in Romanian, an association founded by Valeriu Nicolae, helping underprivileged children have access to education, in Nucsoara, Romania, Saturday, Jan. 9, 2021. Nicolae and his team visited villages at the foot of the Carpathian mountains, northwest of Bucharest, to deliver aid. The rights activist has earned praise for his tireless campaign to change for the better the lives of the Balkan country’s poorest and underprivileged residents, particularly the children. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Una volta che il minore entra in una casa famiglia si innesca un meccanismo così protettivo nei suoi confronti che molto difficilmente ne uscirà. Anche solo perché tra un’udienza e l’altra passano sei mesi, un lasso di tempo nel quale vengono scritte relazioni sul nucleo famigliare senza affrontarne però i problemi. E di relazione in relazione passano gli anni. Cosa succede nel frattempo a quei bambini? «Se sono piccoli vanno in adozione. Se sono più grandi restano in casa famiglia e la loro identità diventa problematica: non si sentono più rom, ma non si sentono neanche cittadini come gli altri», spiega Carlo Stasolla. «Hanno sofferto carenze affettive tremende perché il momento dell'abbandono è uno spartiacque e potrebbero manifestare grosse problematiche che poi si traducono in atteggiamenti lesivi e devianze». Lui stesso ha avuto otto bimbi in affido ed è diventato un punto di riferimento degli assistenti sociali, perché i bambini rom in affido non li vuole nessuno. «C’è un servizio sociale totalmente incapace di gestire la questione: ci dovrebbe essere un accompagnamento della famiglia che ha temporaneamente un minore, con l'idea che il bambino debba tornare nel nucleo di origine». E invece «purtroppo i servizi sociali sono così oberati che, una volta dato il bambino in affido, se lo dimenticano».

Alle famiglie benestanti

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«Abbiamo creato una famiglia molto particolare», racconta Liliana (nome di fantasia) che ha due figli presi in affido che ha poi adottato. Entrambi hanno sempre avuto e continuano ad avere rapporti regolari con i genitori naturali e uno dei due è di origine rom. La situazione della famiglia di Liliana è ideale, perché i genitori naturali hanno acconsentito sia all’affido che poi all’adozione, senza interferire nella nuova vita dei figli. «Rispetto a tante storie, forse questa situazione è meno traumatica», racconta Liliana. «Non c’è lo strappo definitivo con i genitori naturali, e non resta sospesa quella domanda - che a volte diventa molto urgente - sulla propria identità e le proprie origini. Per loro è tutto alla luce del sole, nel bene e nel male, nei limiti che possono riscontrare in noi e in quelli che possono vedere nei genitori naturali».

Il figlio però non sa nulla delle sue origini rom: il padre è italiano e la madre non vive in un campo. Per Liliana non sta a lei raccontarlo, almeno fino a quando non sarà il figlio stesso a fare domande: non ha ricordi della vita familiare precedente, poiché è stato messo in casa famiglia quando aveva 3 anni e a 6 è stato dato in affidamento. 

La scelta di mettere i bambini in famiglie benestanti è sicuramente rassicurante, ma non sempre funziona. «Ricordo una donna a cui hanno tolto la figlia perché la portava insieme a lei a chiedere l’elemosina», racconta il mediatore sociale. La bambina viene affidata a una famiglia italiana che però è «troppo legata alla madre» - che la andava a trovare costantemente - e per questo la ‘restituisce’ alla casa famiglia. E lì la bambina resta, nonostante la mamma avesse nel frattempo trovato una casa e un lavoro. «Ora la ragazza è quasi adolescente e soffre moltissimo: non si sente rom, non si sente non rom ed è ancora in casa famiglia». A funzionare bene invece, chiosa il mediatore sociale, è il penale per i minorenni. «La fortuna di un minore rom spesso è l’arresto per piccoli reati. Gli fanno fare la messa alla prova (il processo viene sospeso e il minorenne viene “messo alla prova” sulla base di un progetto educativo predisposto dai servizi sociali, ndr), gli trovano una borsa lavoro, gli fanno i documenti: paradossalmente smette di essere invisibile».

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