A Corzano, un paese in provincia di Brescia di 1400 abitanti, sono state registrate 100 nuove infezioni al SARS-CoV-2 negli ultimi dieci giorni. Nell’intero mese di dicembre i casi erano stati solo 40. I 14 tamponi positivi sequenziati sono risultati tutti dovuti alla variante B.1.1.7 del virus, quella oggi dominante nel Regno Unito e ritenuta responsabile per la drammatica situazione del paese perché più contagiosa.

Non è il primo focolaio della B.1.1.7 in Italia. Qualche settimana fa una vicenda simile si era verificata a Guardiagrele, in provincia di Chieti. Tuttavia, a oggi le istituzioni sanitarie italiane non hanno una stima affidabile della frazione di contagi dovuti alle nuove varianti del virus.

Il 27 gennaio il viceministro della salute Pierpaolo Sileri ha annunciato la nascita del Consorzio italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di SARS-CoV-2, che dovrebbe coordinare e incrementare l'attività di sequenziamento nel nostro paese. Domenica scorsa il ministero della Salute ha pubblicato una circolare che elenca i casi in cui è indicato eseguire tempestivamente il sequenziamento oltre a segnalare che gli European Centre for Disease Prevention and Control suggeriscono di sequenziare almeno 500 campioni a settimana.

Non è chiaro, però, se l'accelerazione nelle operazioni di sequenziamento sarà sufficientemente rapida: la richiesta dei macchinari e dei reagenti necessari è aumentata nell’ultimo mese e le aziende faticano a soddisfarla.

Di certo non c’è tempo per raggiungere i livelli del Regno Unito, che ha finanziato con 20 milioni di sterline fin da marzo 2020 il COVID-19 Genomics UK Consortium.

Il caso francese

Anche la Francia si è trovata impreparata e sta elaborando un progetto nazionale di sorveglianza genomica in queste settimane. In attesa che il progetto arrivi a regime, ha lanciato un’iniziativa per avere stime affidabili con risorse e tempi contenuti.

L’agenzia Santé Publique ha condotto due indagini flash coinvolgendo 135 laboratori distribuiti sulle 12 regioni metropolitane francesi. La prima indagine si è svolta il 7 e 8 gennaio e ha riguardato 7465 tamponi positivi. Tra questi sono stati sequenziati solo i circa 300 che restituivano risultato discordante quando sottoposti al test Thermo-Fisher (uno dei kit che viene usato per accertare i casi di infezione) e dunque sospettati di essere dovuti alla variante B.1.1.7.

È emerso che il 3,3 per cento dei casi di infezione registrati in quei due giorni è dovuto alla nuova variante, con percentuali che però variano molto sul territorio, raggiungendo il 6,9 per cento nell’Île-de-France. Il 27 gennaio si è svolta una seconda indagine, sembrerebbe che nell’Île-de-France la percentuale sia salita al 15 per cento: una crescita preoccupante.

Sulla base dei risultati della prima indagine, il gruppo di epidemiologi computazionali dell’Inserm guidato dall’italiana Vittoria Colizza ha tracciato degli scenari allarmanti. Nel caso migliore, quello in cui la B.1.1.7 è solo il 50 per cento più contagiosa della variante storica, Colizza e collaboratori hanno stimato che diventerebbe dominante in Francia entro metà marzo e due settimane più tardi si raggiungerebbe un picco nelle ospedalizzazioni, con 35.000 ricoveri a settimana.

Ipotesi nuovi lockdown                                    

Anche in ragione di questi scenari, la scorsa settimana il governo francese ha preso in considerazione un terzo lockdown. A fare pressione sull’Eliseo anche Jean-François Delfraissy, presidente del Cts francese, che ha denunciato l’attuale senso di “falsa sicurezza”.

La possibilità che si realizzi quello che sta accadendo nel Regno Unito, dove nelle ultime due settimane ci sono in media 1200 morti ogni giorno, sembra non essere abbastanza per giustificare delle azioni preventive. Sappiamo che le misure sono tanto più efficaci quanto più sono tempestive. Eppure, tra un rischio imminente e concreto e uno potenziale e futuro anche se con impatto più catastrofico, scegliamo di proteggerci dal primo.

«La nostra percezione del rischio si è evoluta in centinaia di migliaia di anni per reagire a minacce immediate. È uno strumento rozzo, che però ci ha permesso di sopravvivere e arrivare fin qui, ma non è detto che sia adeguato a fronteggiare le sfide della modernità», commenta Giancarlo Sturloni, docente di comunicazione del rischio alla SISSA di Trieste e all'Università di Udine. «Davanti agli incendi che hanno devastato l’Australia lo scorso anno, le autorità  hanno aumentato le risorse dei vigili del fuoco invece che ridurre le emissioni. Non siamo bravi a valutare gli effetti di lungo termine delle nostre azioni».

 La conoscenza scientifica però dovrebbe essere uno strumento che ci aiuta a essere più lungimiranti, «ma ha bisogno di una mediazione. Non basta fornire informazioni per cambiare le convinzioni e i comportamenti delle persone. La comunicazione è prima di tutto una questione di fiducia. I cittadini per essere disposti a cambiare idea devono fidarsi di chi gli spiega che un lockdown oggi probabilmente sarà più breve e  meno costoso  rispetto a uno imposto quando la situazione è fuori controllo».

Come le scimmie

L’economia comportamentale ci offre un altro punto di vista per guardare a questo problema. «Siamo tra gli animali più capaci di attribuire un valore a ricompense future e confrontarlo con quelle presenti», commenta Francesco Guala, professore ordinario di economia politica all’Università degli Studi di Milano, «gli esperimenti hanno mostrato che le scimmie sono incapaci di fare ragionamenti del genere. Tuttavia l’incertezza che caratterizza l’epidemia rende difficile questo tipo di valutazioni».

A respirator KN95 on the Europe map. Photo/Jiri Vrnata (CTK via AP Images)

L’accettabilità di una misura influisce anche sul grado di adesione dei cittadini. In questo senso il lockdown somiglia a quello che in economia si chiama gioco dei beni pubblici, ovvero una situazione in cui il beneficio collettivo (la diminuzione del contagio, nel nostro caso) si realizza solo se tutti i partecipanti adottano volontariamente un certo comportamento (stare a casa, indossare la mascherina). «Tuttavia», sottolinea Guala, «i partecipanti non hanno tutti gli stessi costi e benefici. Se posso lavorare da casa il costo di una chiusura generalizzata per me sarà più basso rispetto a chi invece dovrà chiudere la propria attività. Lo stato può intervenire per ridurre le differenze nei costi e nei benefici dei diversi gruppi di cittadini, per esempio attraverso i sussidi di disoccupazione o altre misure di sostegno al reddito. Ma questa capacità di intervento non può estendersi per periodi di tempo troppo lunghi».

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