A partire dagli anni Ottanta, in tutta Europa si è assistito a un fenomeno inedito. Fino a quel momento c’era stata una convergenza di valori e anche di scelte politiche tra i conservatori o, per usare la terminologia in uso nei paesi scandinavi, tra il fronte borghese e il fronte socialista.

In seguito alla diffusione del neoconservatorismo, di cui furono promotori politici Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margareth Thatcher in Gran Bretagna, le distanze tra i due fronti sono aumentate. E mentre prima erano stati i conservatori a sposare molta parte dell’agenda socialista, in particolare la costruzione di un sistema di welfare, alla fine del secolo scorso è andato in scena un movimento opposto: i socialisti hanno adottato varie linee del (neo)conservatorismo.

La radicalizzazione del fronte borghese e l’effetto di trascinamento sui socialisti hanno spostato il baricentro della politica europea verso destra. Quanto avvenuto alla fine del secolo scorso ha lasciato tracce anche in questi ultimi anni. Anzi. La nascita dei partiti della destra populista ha ulteriormente sospinto i partiti borghesi verso posizioni più estreme, in un processo di imitazione-competizione, di cui il caso dei gollisti francesi, scivolati verso il lepenismo, è il più emblematico. Ma queste dinamiche hanno coinvolto tutti gli strati dei partiti, oppure le scelte dei dirigenti non hanno convinto i rispettivi iscritti ed elettori? La base ha seguito il medesimo processo di radicalizzazione o si è mantenuta su un terreno più tradizionale?

Il caso inglese

Uno spunto di riflessione su questo tema viene da uno studio condotto da una equipe di politologi britannici su dirigenti, iscritti ed elettori del Labour e dei conservatori (Wager, A., Bale, T., Cowley, P., & Menon, A. The death of May’s law: Intra-and inter-party value differences in Britain’s labour and conservative parties, in Political Studies, 2022).
Questo lavoro consente di analizzare le posizioni delle tre componenti interne del Labour party e dei Tory, e di verificare, da un lato, se c’è omogeneità di vedute tra ciascuna componente all’interno dei partiti e, dall’altro, quanta distanza si registra tra laburisti e conservatori e se è maggiore a livello di base o di vertice.
Contrariamente alla narrazione che dipinge un Labour spaccato, questa ricerca dimostra invece quanto sia coeso al proprio interno sulle questioni economiche.

Tra i Tory, invece, emerge una divaricazione profonda. Infatti se a livello di base gli elettori conservatori non si discostano più di tanto dai loro avversari, persino su affermazioni del tipo «i lavoratori non ottengono una giusta quota della ricchezza nazionale» e «il big business si approfitta dei semplici cittadini», gli iscritti, e soprattutto i parlamentari, si allontanano per la tangente adottando  posizioni ben più radicali in direzione pro market e neoliberale.  

Quando si prendono in considerazione i valori sociali il quadro cambia radicalmente. Qui i dirigenti di entrambi i partiti si discostano dalle sensibilità dei loro seguaci: tanto i parlamentari laburisti quanto quelli conservatori si muovono verso posizioni più liberal. In particolare, sulla pena di morte e sull’introduzione di pene più severe per coloro che infrangono la legge, lo iato tra elettori e dirigenti all’interno di ciascun partito (con gli iscritti a metà strada) è enorme. In sostanza, a livello di base, entrambe le formazioni politiche si rivelano poco sensibili a valori sociali aperti. 

In sintesi, i laburisti sono più coesi sul terreno economico dei conservatori, e questi ultimi si collocano molto più a destra dei loro elettori e iscritti. Entrambi si discostano dai rispettivi elettorati sul piano dei valori sociali condividendo posizioni più liberal. 

La ricerca inglese sollecita una riflessione sulla politica italiana, con riferimento al Partito democratico. Forse una delle mutazioni dell’elettorato del Pd – la penetrazione negli strati borghesi e acculturati, concentrati nelle aree urbane e metropolitane – è dovuta a un approccio liberal della dirigenza del partito; tuttavia tale approccio probabilmente non è stato seguito da quella parte dell’elettorato meno acculturata e meno sensibile a quelle tematiche, con un loro conseguente allontanamento.

In più si può ipotizzare che una ulteriore difficoltà del Pd sia dovuta alla insensibilità (se non plateale disinteresse) della leadership verso i temi sociali, contrariamente alla coerenza di lungo periodo su questi aspetti dei laburisti britannici. Pertanto, mentre i laburisti sono ancora un partito con una ampia base operaia, nonostante il distacco di una sua parte alle ultime elezioni a causa della Brexit, il Pd fatica a mantenere la presa su quella che era la sua constituency di riferimento. E, per aggiungere problema a problema, la destra, fin dai tempi di Berlusconi e di Bossi, è stata in grado di attrarre strati sociali sottoprivilegiati combinando il riferimento a valori illiberali e autoritari a promesse demagogiche di interventi socioeconomici.

© Riproduzione riservata