«Al massimo ci faccio un brodino vegetale», la battuta stavolta gli è uscita così. Parliamo del presidente Vincenzo De Luca e della sua reazione alla bocciatura di misure varate dalla regione Campania giudicate incompatibili coi vincoli paesaggistici nazionali.

Il caso ha voluto che la firma in calce alla circolare del ministero della Cultura fosse della dottoressa Cipollone. Da lì il motto di spirito del governatore con l’associazione del patronimico bulboso a una caricatura dell’incolpevole funzionaria.

L’episodio dirotta la riflessione su un paio di binari. Il primo ha a che vedere con la tendenza in uso da tempo a cercare nell’uscita a effetto una maggiore visibilità. De Luca da anni non fa nulla per dissimulare un linguaggio esasperato nella realtà quasi quanto il suo alter ego satirico, Maurizio Crozza, s’incarica di ricreare alla tivù.

Il De Luca in carne e ossa si rivela autore più creativo e prolifico del De Luca virtuale. Pure questa un’anomalia, soprattutto se paragonata alle prime imitazioni di uomini politici, quelle in bianco e nero con un Alighiero Noschese in trucco, parrucco e grisaglia a duplicare Andreotti, La Malfa o Berlinguer.

Anche allora si trattava di satira, ma gli spazi reciproci apparivano (perché lo erano) chiaramente distinti.

Una regressione

Oggi la satira professionale più che storpiare la cronaca e i suoi protagonisti tende a replicarli limitandosi a fotografarne indole, piccole manie, lessico. Un passo avanti o una regressione? Opterei per la seconda.

Una particolare verve ha sempre scortato l’abilità comunicativa, compresi sprazzi d’ironia, di politici all’apparenza sobri e compìti nel ruolo.

Sepolta nelle teche Rai dovrebbe trovarsi una tribuna televisiva dove Giancarlo Pajetta si era fatto beffe di Romolo Mangione, giornalista de L’Umanità e icona di un anticomunismo viscerale.

Mangione, in una diversa occasione, aveva apostrofato Palmiro Togliatti con toni inurbani. L’iniziativa gli era valsa una qualche notorietà, compresa la candidatura alle elezioni successive: una vettura equipaggiata di trombe bombardava i passanti con l’esortazione “Votate Mangione, l’uomo che ha inchiodato Togliatti”.

La sera del duetto in questione, incassata la domanda aggressiva del giornalista, Pajetta gli si era rivolto più o meno a questo modo, «Vorrei dire all’onorevole Mangione… (pausa) …ah mi scusi, ho detto onorevole, ma Lei non è onorevole? Ah, non è stato eletto nonostante la campagna sull’uomo che aveva aggredito Togliatti…».

A quel punto, il merito della risposta era archiviato perché la delegittimazione del giornalista aveva imboccato la via dello sfottò. L’episodio valse al dirigente comunista un piccolo encomio su L’Espresso da una penna arcigna come Sergio Saviane: «Un grande attore televisivo, uno dei pochi capaci di suscitare un vero interesse per questa trasmissione (Tribuna politica, ndr) non soltanto negli specialisti ma anche nel telespettatore che ha appena pranzato. Pajetta è il solo che sappia trasformare una conferenza in uno spettacolo».

Il cosa e il come

A me pare che la regressione non stia tanto nell’inseguimento di frasari costruiti spesso sul bordo del lecito. In fondo ridicolizzare un cognome può sembrare meno grave dell’ironizzare sul fisico di qualcuno.

Il punto è quando questo modo di intendere la comunicazione finisce con l’esaurire il ventaglio di stili e possibilità. Ascolto quel politico e posso intuire “cosa” dirà, ma con assoluta certezza so in anticipo “come” lo dirà, con quale postura, tono, vocabolario.

So che la stoccata all’avversario sceglierà l’arma della comicità anziché quella dell’argomentazione. Tutto in un gioco di ruoli infelicemente prevedibile.

Temo che il perdurare di questa dinamica abbia influito sulla credibilità di una forma del parlare che da sé la politica non è più in grado di generare e condividere.

Insomma, dove sta l’aspetto rilevante della scivolata di De Luca? Nella difficoltà del discorso pubblico a ricostruire un codice proprio, distinto sia dal glossario comico che da un repertorio burocratico e formale.

Giuste o meno che fossero, nella memoria si possono recuperare formule partorite a quel modo e rimaste nell’agenda di partiti, leadership, istituzioni.

Dalla “programmazione” alle “convergenze parallele”, e “austerità” o “grande riforma” sino a “compromesso storico” e “arco costituzionale”, rimpiangere quelle chiavi non avrebbe senso alcuno, casomai vale farsi una domanda: meritava investire anni e fatica per transitare da Noschese a Crozza senza passare dal via?

Non sarà il caso di fermarsi un attimo e, per chi nella politica confida ancora, ricostruirne una lingua?

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