Silvio Berlusconi è venuto all’onore del mondo a metà degli anni Settanta, neanche quarantenne, mentre accumulava miliardi edificando quartieri su misura per il gusto del ceto alto, ma non altissimo. A loro proponeva dimore affluenti dentro edifici immersi in mezzo a prati verdi giornalmente pettinati, con parcheggi ben riposti e bimbi liberi di scorrazzare in compagnia di amichetti pari loro.

In poche parole il Silvio Costruttore tirava su le case e le vendeva a iosa perché le pensava mettendosi nei panni di coloro che le avrebbero comprate. Fare le merci per materializzare i sogni dei clienti, e dunque non belle, brutte o funzionali in assoluto, ma seducenti per chi le avrebbe usate, è il fondamento del “marketing totale” che giusto in quei tempi toglieva negli Stati Uniti lo scettro del design agli ingegneri e lo passava a una legione di psicologi, capaci di sezionare i pensieri e trarne infinite nicchie di mercato.

Evidentemente il giovane Berlusconi non aveva passato invano gli anni rimbalzando fra New York e Washington ad accumulare cultura e referenze. Proprio a New York, fra l’altro, c’è Madison Avenue in cui spiccano le grandi agenzie pubblicitarie che, da quando Vance Packard, nel 1957, aveva scritto I persuasori occulti, erano il centro propulsore della filosofia, se mai una ce n’è stata, della società cosiddetta dei consumi.

Ebbene, vista da quelle sponde, l’Italia era negli anni Settanta un bel paese che avanzava a grandi passi verso il cosiddetto consumismo.

Silvio e il consumismo

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Chi, come Silvio, vedeva il fenomeno dagli Stati Uniti era in grado di prevedere passo passo quel che anche da noi sarebbe capitato: richiesta di igiene personale, sacralizzazione delle arti seduttive affidate a cosmetici, abbigliamento, gioielli da donare, anche patacche, ma sempre cariche di tenera attenzione. Soprattutto, a ben guardare, lo spianamento dell’autorità del “padre” abbandonata insieme con i costumi di campagna e ormai priva di energia e funzione nel mondo urbanizzato.

Silvio Berlusconi aveva quindi pronte nella testa tutte le idee necessarie per cogliere al volo l’occasione quando gli fu offerto, nel 1976, di rilevare la gestione di frequenze che un boss democristiano di Milano s’era intestato, ma che non sapeva come far fruttare al punto da finire ossessionato dalle bollette, dal personale e da mille altre incombenze.

Nel giro degli affari in Lombardia Silvio era benissimo inserito (e coi democristiani, come lui stesso ha volentieri raccontato, era tutto un pappa e ciccia) come si conviene ad un costruttore che assegna gran valore al potere che governa i piani regolatori e le licenze. Ma siccome era lui, e non un qualsiasi galoppino, cominciò subito, col nome di Telemilano (poi Canale 5) a pensare alla tv del Biscione come tutt’altra cosa da quella della Rai.

Nel 1977 la tv pubblica usciva da pochi mesi dalla spartizione fra i partiti del centrosinistra e da quel casino senza eguale aveva tratto una vitalità transitoria, grazie alla concorrenza interna delle programmazioni secondo aree politico-culturali. Restava comunque una tv a suo modo sempre “colta” in cui il pensiero e la ragione regolavano i registri all’emozione.

Non per nulla tutto il personale dirigente aveva letto libri in quantità e aveva contribuito spesso a scriverli. Ovviamente, come suole capitare a queste altezze, ciascuno teneva conto in primo luogo del giudizio dei suoi pari, oltre dell’umore di qualche santo protettore non meno altolocato in campo politico e sociale. Del resto Auditel era ancora da venire e queste erano le uniche, disponibili, misure del successo.

Canale 5 sradicò i pilastri stessi del sistema fondendo il linguaggio dei programmi con quello della pubblicità e squassando gli equilibri economici di fondo, divenendo il capofila delle neonate tv commerciali nel dare l’assalto ai soldi che fino allora erano stati della stampa. Da parte loro gli “investitori”, cioè le industrie che pubblicizzavano i prodotti, furono leste ad abbandonare la pagina a pro del video. Ne seguì pressoché nell’immediato il tracollo dei piani di business del mondo editoriale che si gettò anch’esso a fare la tv sperando di riacchiappare i ricavi che perdeva sulla carta.

Ma la testa giusta per fare la tv commerciale era del palazzinaro e non dell’editore, tant’è che proprio allora tramontarono le fortune del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, e Repubblica si ritrovò a condividere le sorti del Gruppo Mondadori. Il più lesto a fiutare la tragedia fu Rusconi che cedette ben presto baracca e burattini a Berlusconi senza rimetterci l’osso del collo. A seguire, Rcs, col suo canale Pin, chiuse bottega nel mentre che la P2 ne regolava la spartizione delle spoglie e Mondadori, trascinata a fondo dalla sua Rete Quattro, divenne, né più né meno, proprietà di Berlusconi. Finale scontato, considerando che mentre quelli badavano ai programmi, lui aveva messo a punto Publitalia, come vera fonte di strategie oltre che di ricavi.

L’impronta editoriale

La chiave editoriale del successo di Silvio, tycoon televisivo, è espressa in uno slogan che senza dubbio i meno giovani ricordano: “Vieni a casa in tutta fretta, c’è il Biscione che t’aspetta!”. Il che, tradotto in prosa, significava che a casa, ad attenderti fedele e quasi specchio di te stesso, c’era la bestiola di Cologno Monzese.

Era pronta a saturare le tue voglie al modo complice del fido maggiordomo che ti conosce a fondo senza fartelo notare, ti prende per il tuo verso perché, visto che becchi la pubblicità e lo paghi, sei già perfetto. In altri termini, tra tanti contendenti che non guardavano oltre il naso e favorirono il saccheggio dell’etere italiano (caso unico al mondo) e tanti babbei che cantavano le glorie della de-regolazione, solo Berlusconi e il Biscione avevano insieme denaro, visione e un disegno editoriale basato sul più aggiornato tipo di individuo.

Così la Rai, nei primissimi anni Ottanta si trovò alle prese con una Fininvest-Biscione che controllava ben tre reti, aveva espulso ogni altro concorrente e neppure pareva ancora sazia. Tanto più che un assalto di pretori che contestavano al Biscione di agire fuori legge, si rivelò talmente fuori luogo e fuori tempo che si risolse in un’ottima occasione per legittimare quei comportamenti con la forza di un decreto, reso urgente dal furore del pubblico e dei Puffi (eroi cartoon che in nessun modo potevano essere sottratti ai piccolini). Perché ormai solo tipi strani avrebbero preferito, tornando a casa, essere accolti non dal mondo del Biscione, ma da una qualche tv locale.

Giunte le cose a questo punto, il sistema politico produsse l’ennesima, grande spartizione, perché la Dc (quella di sinistra) puntò a riprendersi la Rai, dove le sue legioni erano in gran parte acquartierate, lasciando al Psi e ai dorotei di casa propria di trescare a piacimento col Biscone di Cologno. Grazie a questo accordo la Rai venne affidata a un direttore generale (Biagio Agnes), rafforzato quanto serviva a reggere la sfida dell’ascolto. Basti dire che Agnes arrivò a dare la terza rete ai comunisti pur di coprirsi politicamente da quel lato. E ben gliene incolse quando il Pci volle che fosse diretta da Angelo Guglielmi, perché proprio da quel canale cenerentola arrivò la sorpresa di un contributo decisivo a tenere a galla il gommone della Rai.

Fininvest per contro divenne l’azienda di riferimento del Psi e del doroteismo Dc che lo stesso Berlusconi aveva ben interesse a tenersi stretto. In pari data Gianni Letta divenne il mentore politico di Silvio donandogli ogni arte necessaria nel rapporto col palazzo. L’arma segreta, che nessuno aveva ancora soppesato, è che in questa impresa televisiva si forgiava lo specchio narcisistico, capace ormai di gareggiare nelle contese elettorali accanto all’armamentario, fra il messionico e il clientelare, sul quale la Repubblica poggiava.

E con quest’ultimo tocco si erano bell’e definiti i campi dell’Ulivo e del Polo che, appena crollato il muro e sorto il nuovo soggetto della Lega, si sarebbero scontrati per tre lustri alle elezioni, finché la crisi Lehman del 2008 se li è portati via entrambi con la piena.

Il duopolio

LAPRESSE

L’assoluto capolavoro, di tutte le genialate di Silvio certamente la più solida e durevole, fu, sette anni prima della discesa in campo (che ne derivò, semmai, per conseguenza), la costituzione del duopolio. Per comprenderne il segreto è necessario tornare all’autunno del 1987.

L’equilibrio tra le due aziende e fra gli schieramenti politici sottesi era ormai costituito. La Rai rastrellava quasi il 50 per cento d’audience e Mediaset se ne stava accucciata al 42 per cento. Pochi mesi prima Berlusconi aveva tentato il colpo dell’asso pigliatutto sottraendo alla Rai a forza di miliardi (garantiti come sempre dalle banche) la coppia d’oro di Raffaella Carrà e Pippo Baudo, tanto che per la Rai pareva ci fosse solo l’ultimo respiro.

Invece i due nel contesto editoriale del Biscione fecero cilecca, e Silvio capì che piuttosto che spazzare via la Rai gli conveniva porla al suo servizio. Tanto più che, come osservò Arrigo Levi nonostante che allora avesse occhi d’amore solo per Silvio, quel vecchio Ronzino di viale Mazzini era stato in grado di inventarsi il fenomeno terza rete dalla sera alla mattina, il populismo televisivo di Adriano Celentano e così via.

In cosa consiste l’equilibrio del duopolio? Nel tenere costanti le rispettive proporzioni nel controllo degli ascolti. La Rai felice così di essere la più grande e di far contenti i politici impegnati a lottizzarla come un oggetto da cui spremere chi la visibilità, chi qualche quota di potere in termini di poltrone e di stipendi. A una siffatta Rai toccavano oltre ai ricavi del canone anche una apprezzabile quota di ricavi pubblicitari, ma non proporzionale all’audience perché, disponendo dell’entrata pubblica, era tenuta a limitare gli spot a non più di un’oretta in media per canale. I tre canali Fininvest invece, in quanto basati per intero su entrate commerciali, trasmettevano una durata di pubblicità cinque volte superiore. Con tutto questo spazio a disposizione erano in grado di soddisfare qualsiasi domanda, anche da parte di aziende piccolissime. E sol questo bastava a rendere impossibile la ipotetica esistenza di una concorrenza puramente commerciale.

Infatti in breve Telemontecarlo, moncone di un tentativo aggeggiato fra Agnelli e il gruppo Tv Globo brasiliano, fallì, fra ricorrenti crisi e cambi di proprietà, e tuttora vivacchia al limite del guadagno zero nonostante sia piuttosto cresciuta negli ascolti e a dispetto della mano sparagnina del padrone.

Alla potenza di fuoco del Biscione andava poi aggiunta la funzione complementare garantita dall’esistenza stessa della Rai che, risucchiando la sua grande parte d’audience, toglieva lo spazio di comunicazione a ogni ipotetico concorrente. E nel contempo, avendo le entrate pubblicitarie plafonate, non era nelle condizioni strutturali di essere concorrente commerciale del Biscione.

Grazie a queste caratteristiche di fondo, il duopolio non era affatto, come suggerirebbe l’etimologia del nome, il campo di battaglia fra due forze, ma il luogo del loro pacifico convivere dentro una palizzata di regole di comodo e di prassi che escludevano in partenza qualsiasi terzo incomodo. Tanto da far sembrare non poco ipocrita lo scandalo che sopravvenne da parte di anime sensibili quando al settimo piano della Rai l’equilibrio politico permise a Silvio di inviarvi i suoi stessi manager e sodali, a regolare con un solo sguardo le offerte delle due ditte “concorrenti” per spremere sia l’audience sia il mercato, con il minimo della spesa necessaria.

Da un tale mirabile monopolio, con due facce e un’unica sostanza, non potevano non derivare guadagni enormi pari, a un margine lordo operativo del 30 per cento e oltre che nessun’altra azienda televisiva al mondo si sognava.

Solo la destinazione è stata differente per i due: gli utili di Fininvest (oggi Mediaset) hanno reso Berlusconi un Paperone senza eguali, un capitano di ventura (per sé stesso) capace di tenere al soldo le sue truppe e di togliersi subitaneo ogni sfizio. Gli “utili” conseguiti dalla Rai vanno posti tra virgolette perché sono quelli che restano in bilancio per mantenere la baracca dell’informazione lottizzata, in un numero assurdo di testate ed edizioni, come risulta dal confronto con qualsiasi altra televisione, privata o pubblica del mondo. Editorialmente il trionfo del superfluo, ma politicamente il cordone ombelicale fra l’ente e il peggio di tutte le Repubbliche che si sono nel frattempo succedute.

Berlusconi ci lascia, e noi ci sentiamo di rendergli l’onore delle armi, quanto meno per la figura da cioccolatai che ha fatto fare a tanti che ne hanno detto peste e corna nel mentre che se ne stavano beati a mantenere il proprio giardinetto lottizzato, o a quelli tutti presi dalle sue tante birbonate, facilissimo bersaglio, nel mentre che s’adattavano senza traumi a un disastro epocale, d’altra natura e assai più vasto.

La storia della tv italiana è stata infatti una tragedia, seppure talvolta molto divertente. Ha distrutto il cinema, ha annichilito i posti di lavoro, ha messo in piedi una semplice, nazionale, bancarella dove ci siamo trastullati a piluccare il meglio e il peggio di quanto era offerto dal mercato. Il mercato vero, cioè globale, e non certo quello nostrano che ha passato più di trent’anni in rianimazione, ma senza alcun medico politico che s’ingegnasse sul come restituirgli una qualche dose di respiro.

La caduta dei vecchi dèi

Solo negli ultimissimi anni qualcosa si è mosso grazie alla tigna di qualche produttore e a qualche funzionario coscienzioso. Ma forse, anzi piuttosto, grazie al fatto che le due aziende del duopolio, hanno iniziato ad essere corrose fin nelle fondamenta dal nuovo intrattenimento e dalla nuova informazione che galoppano su Google, Facebook, Netflix. Su quelli, cioè, che via internet raggiungono il consumatore fregandosene degli equilibri socio politici di qualsiasi territorio. È in Internet infatti che fuggono i ricavi pubblicitari che per decenni hanno unito i protagonisti del modello italiano di decrescita.

Forse il destino vuole che stiano arrivando insieme al pettine i nodi strutturali sia della dimensione audiovisiva sia della politica del paese. Constatato che campando alla giornata c’è chi ne guadagna, ma molti di più tirano le cuoia, messo spalle al muro dalla pandemia, un intero paese sta decidendo se diventare adulto o darsi al primo che lo distrae con un trastullo.

Questa è la scommessa che si gioca con le riforme “epocali” e con i soldi garantiti dall’Unione europea, e anche nella dimensione dell’audiovisivo in cui, pare una coincidenza voluta dal destino, tutto s’affolla nello stesso tempo: la sentenza della corte in Lussemburgo, la regolazione di nuovi affollamenti pubblicitari, l’ammissione delle società telefoniche nella partita della televisione, insieme con la ventata dell’offerta via internet nel ruolo del magma sottostante.

Così parrebbero costretti a stropicciarsi gli occhi anche i più neghittosi fra i politici nostrani, al punto che perfino Maurizio Gasparri, l’autore delle tavole della legge che a inizio del millennio tumulavano la concorrenza e il servizio pubblico, sembra entrato nella recentissima gara fra quelli che, mentre guardano alle nomine, hanno preso a parlare perfino di riforma. Se son foglie di fico o rose lo vedremo, e se talvolta correremo il rischio di eccedere nella concessione di fiducia, ci verrà in soccorso immaginare cosa dovesse pensare Silvio di quei legislatori ben contenti di guadagnare, non solo la sua stima, nel mentre che gli accudivano gli affari di famiglia.

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