«Da tempo il centrosinistra possiede un bacino elettorale ristretto e non espansivo. Anche se sistematicamente ignorato, questo convitato di pietra esiste da molti anni, e tutte le ricerche sul comportamento elettorale degli italiani hanno segnalato che la base sociale della coalizione di centrosinistra è caratterizzata dalla sovra-rappresentazione di tre aree sociali: quella del lavoro dipendente prevalentemente pubblico, e sempre più quella dei pensionati (ben il 37 per cento il 25 febbraio!) e quella delle figure dotate di un alto livello di istruzione. Si tratta di una base sociale fortemente legata al sistema del welfare, la cui composizione è in buona misura il riflesso dell’espansione della sfera dei diritti che si produsse negli anni 70».

Era il maggio 2013, il professore Franco Cassano scuoteva il Pd e la sinistra dalle colonne dell’Unità. L’inclemente «non vittoria» delle elezioni aveva fatto scattare l’ora della verità nel centrosinistra, l’analisi di Cassano era molesta, costringeva alla definitiva presa di coscienza di un’inversione di ruolo e funzione politica. Il voto di sinistra, era la sostanza del ragionamento, è di chi ha tutele e certezze sociali.

Tutti gli altri si rivolgono a Cinque stelle e destra. Cassano era appena diventato deputato. Lo aveva voluto nelle sue liste il segretario Pier Luigi Bersani, insieme ad altri intellettuali (in quella legislatura divenne senatore il padre dell’operaismo Mario Tronti) con l’idea di innestare pensieri lunghi dentro le necessarie tecniche parlamentari e le inevitabili furbizie quotidiane di palazzo.

Quella stagione a lungo pensata e progettata, in un baleno cambio strada: Bersani non divenne premier, anzi si dimise da segretario del Pd, presto il suo partito si consegnò alla cometa Matteo Renzi; la coalizione si sgretolò, e qualche anno dopo anche l’Unità smise le sue pubblicazioni. Ma il professore, anche in quella sua parentesi di deputato, non fece mai mancare il suo lavoro di analisi. «Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento» (Laterza), esce l’anno dopo.

Franco Cassano se n’è andato martedì mattina, era malato da tempo. Sociologo, docente di sociologia nella sua Bari, è stato il padre del nuovo meridionalismo. Intellettuale impegnato, studioso di Marx e Weber, negli anni 70 fu con Beppe Vacca e Biagio De Giovanni fra gli ispiratori di un esperimento sociale e politico con un nome affettuosamente ironico, l’Ecole barisienne, a cui contribuirono editori illuminati come Laterza e De Donato. Fu da questa radice che vent’anni dopo maturò il laboratorio di civismo della «Città plurale», la riflessione sui beni comuni (è del 2004 Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo) e soprattutto l’illuminazione della strada della primavera pugliese.

Perché la lunga stagione di Nichi Vendola a capo della regione, e di Michele Emiliano a sindaco di Bari, nasce sotto il segno del pensiero militante di Franco Cassano, della sua passione per la giustizia sociale, della sua idea di cultura. Una stagione bellissima, e ormai quasi mitica: in quel momento nasce un sound, cantanti e band, si accende uno sguardo e un cinema, un racconto letterario con alcuni autori. Tutti figli e figlie di quella Puglia che da quel momento è un capitolo imprescindibile del racconto dell’Italia. Tutti devono molto al professore Cassano. Vendola in queste ore lo saluta come «maestro mite», Emiliano lo ricorda come «un grande intellettuale del sud che a differenza di altri, ha tracciato una via che la politica ha realizzato, sia pure lasciandolo perennemente inquieto». E c’è del vero, oltre il doveroso tributo dell’estremo saluto.

Perché Cassano per tutta la vita, dagli anni Settanta, ha incarnato una bella figura di intellettuale generoso e popolare: capace di visione ma immerso nei processi che i leggeva e indicava; niente di più distante da lui la pratica di un pensiero che non attraversasse le frontiere, i mari, il ‘suo’ Mediterraneo, che non affondasse i piedi nella realtà della propria terra. Una specie ormai rara, di cui nei nostri tempi si ritrovano esponenti quasi esclusivamente nel Mezzogiorno, ed esclusivamente intorno a amministrazioni illuminate.

Per questo la sua riflessione imprescindibile è «Il pensiero meridiano» (1996, Laterza), ispirazione e matrice di una leva di politici e intellettuali sud. Pensiero meridiano vuol dire questo, scrive in quel saggio, tradotto in europa e oltre e poi ripreso e riaggiornato dieci anni dopo, «sostituire al sud dell’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. Tutto questo non vuol dire indulgenza per il localismo, quel giocare melmoso con con i propri vizi che ha condotto qualcuno a chiamare giustamente il sud un “inferno”.

Al contrario un pensiero meridiano ha il compito di pensare il Sud con maggiore rigore e durezza, ha il dovere di vedere e combattere iuxta propria principia la devastante vendita all'incanto che gli stessi meridionali hanno organizzato delle proprie terre. In questa vendita all’incanto, in questo assalto volgare e trasformistico alla modernità, si sono venute affermando le due facce oggi dominanti del Sud: paradiso turistico e incubo mafioso.

Queste due facce, in apparenza antitetiche, sono invece complementari perché rappresentano la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nello sviluppo, ai suoi margini, laddove i modelli seducenti che si irradiano dalle capitali del nord ovest si decompongono fino a diventare deformi».

Nessun cedimento dunque, alle falsificazioni parolaie del nord autonomista, ma neanche alle false solidarietà di un modello di sviluppo che in realtà punta alla conservazione della marginalità del mezzogiorno.

Durezza e rigore dell’analisi, era l’incitazione di un uomo cordiale e pieno di note umane e mediterranee, e ad oggi non c’è pensiero meridionalista, né programmazione politica e di investimenti sul Sud, che possa prescindere dalle sue riflessioni. 

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