Al capolinea. Stavolta non è un giudizio, un titolo, ma un dato di cronaca. Il secondo governo Conte finisce stamattina, dopo una giornata di confusione totale, con la maggioranza nel caos e i ministri in videocall permanente a inseguire le decisioni del loro presidente del Consiglio. Alla fine Conte ha convocato per le 9 di oggi il Consiglio dei ministri. Subito dopo salirà al Colle a rassegnare le dimissioni. Ma qui finiscono le certezze. Perché la maniera in cui ieri il premier è arrivato alla conclusione definitiva, racconta di una scelta maturata dopo aver sbattuto più volte nel fondo di alcuni vicoli ciechi. Ieri il premier, nel suo giorno più lungo, più lungo anche di quelli dell’estate 2019, è stato impegnato in una serie di incontri per discutere di Recovery plan, da Confindustria fino al Forum del terzo settore. Voleva dimostrare che non stava perdendo tempo. Ma parallelamente, le voci che si rincorrevano e si smentivano minuto dopo minuto, dimostravano che stava succedendo di tutto.

E proprio mentre presenziava all’ultimo incontro, quello con il terzo settore, Conte ha dovuto prendere atto che i vertici del partito di maggioranza relativa, il suo partito di riferimento, non avevano intenzione di far bocciare in aula il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nel voto sulla sua relazione sullo stato della giustizia.

Il caso Bonafede

In fondo Bonafede è anche capodelegazione del M5s. Non solo, Luigi Di Maio gli ha spiegato a chiare lettere che era escluso che il Guardasigilli facesse anche lontanamente un’abiura sull’abolizione (di fatto) della prescrizione. E cioè la cosa che, in termini più soft e urbani, il Pd – da Andrea Orlando a Walter Verini a Goffredo Bettini – suggerivano per «allargare la maggioranza». Anche accettando, i numeri sarebbero rimasti scarsi, forse sufficienti, ma appesi ancora una volta alla scelta di Italia viva che nel pomeriggio aveva continuato a far sapere che avrebbe «ascoltato la relazione del ministro», ma in realtà avrebbe votato No. La manciata di nuovi responsabili che si sono palesati all’ultima fiducia – Nencini, Lonardo, Causin, Rossi – stavolta non sarebbe arrivata in soccorso. Per di più, ed è la valutazione definitiva, i Cinque stelle non possono deflettere dalla loro rigida linea giustizialista. Non al Senato dove è più forte il drappello vicino ad Alessandro Di Battista.

Così a Conte non è rimasto che arrendersi. Questa mattina andrà al Quirinale per rassegnare le dimissioni, e contestualmente lanciare un appello alle «forze europeiste» per portare avanti il Recovery plan, il piano vaccinazioni, e mantenere un governo solidamente antisovranista. Scatta la lotteria dei precedenti per capire cosa farà Mattarella: reincarico pieno, mandato esplorativo o pre-incarico. L’appello di Conte seguirà lo «schema Romani», dal nome dell’ex braccio destro di Berlusconi, oggi senatore di Idea-Cambiamo componente del gruppo Misto di palazzo Madama, che ieri sera ha inviato segnali di possibili convergenze. «Di fronte al momento che stiamo vivendo tra la pandemia ancora attiva, i ritardi dei vaccini, il rischio sblocco dei licenziamenti a breve, il Recovery plan entro il 30 aprile, il riposizionamento delle spese sanitarie regionali e il decreto Ristori 5, non comprendo il fatto che si consideri come opzione il voto – ha spiegato – Sono per un governo di unità nazionale o come si voglia chiamare».

Il Pd benedice l’operazione, ma con qualche precauzione. «Con Conte per un esecutivo di salvezza nazionale», è il via libera del segretario Nicola Zingaretti.

La condizione però, non detta, è che nel nuovo governo, Iv non sia più determinante. Eppure il rischio c’è. Perché nel frattempo da Forza Italia arriva grande scetticismo («Non abbocchiamo») e giurano che la componente di Toti (almeno due senatori su tre) non sarà della partita senza il sì di Forza Italia.

I conti tornano?

Non è un caso che dal Pd filtra comunque l’impressione non rassicurante di una «crisi al buio». In mattinata da Radio Immagina, la nuova emittente web del partito, il segretario esclude di fatto la sostituzione di Conte, «è il punto di equilibrio in questo momento più avanzato. Ha preso la fiducia quattro giorni fa e sfido chiunque a dimostrare che si può superare quel livello». Ma in serata il solitamente cautissimo commissario europeo Paolo Gentiloni, nel corso di un dibattito del Pd belga, usa termini diversi da quelli che circolano a Roma, forse riflesso dell’aria che tira a Bruxelles a proposito del governo italiano: il Pd sta facendo la sua parte, «mi sento spesso con il segretario, i membri del governo e altri amici, e come ci è capitato spesso in questi anni, teniamo in piedi la baracca», però «bisogna sempre cercare di farlo con una certa qualità, perché se alla fine ti limiti a tenere in piedi la baracca, e la qualità non è adeguata, rischi di pagarne i prezzi».

Non c’è alcuna certezza che Conte riesca a rimettere in piedi «la baracca», lui stesso lo sa. Circola il nome del ministro Dario Franceschini, forse solo una suggestione, certo una garanzia maggiore per «gli europeisti» ai quali si fa appello. Matteo Renzi tace, forse sgranocchia pop-corn, tutti sanno che il suo obiettivo era mandare a casa Conte. Nella chat dei suoi parlamentari ringrazia Bellanova, Bonetti e Scalfarotto. E sottolinea la compattezza di Iv. «Avevamo tutti contro ma siamo riusciti a portare la discussione sui contenuti» dicono da Iv. Oggi o domani la riunione per decidere la delegazione per le consultazioni. E il premier da indicare.

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