Il nome mitologico l’ha diffuso Stefano Ceccanti, deputato del Partito democratico: decreti “minotauro”. Sono provvedimenti che “mangiano” e assorbono altri decreti, precedenti e successivi, fino ad assumere fattezze a volte mostruose.

Il caso più evidente è quello del decreto Ristori, nel cui corpaccione sono finiti altri quattro testi: prima il Ristori bis, poi ter e quater, tutto in un’unica legge di trentacinque articoli e più di duecento pagine. In precedenza era già accaduto con il Cura Italia e il decreto Agosto: entrambi hanno inglobato altri tre provvedimenti legati all’emergenza.

In totale, nella legislatura in corso sono già venti i decreti decaduti o abrogati per confluire in altri, di cui quindici solo nell’ultimo anno, dall’inizio dell’emergenza sanitaria a oggi. Non è una questione di tecnicismi. Si tratta di una pratica che contribuisce a marginalizzare il lavoro del parlamento. Che cosa accade in questi casi? I decreti legge devono essere convertiti dalla camere entro sessanta giorni. Quando si aggiunge un secondo o un terzo provvedimento, al parlamento non rimane tempo per esaminarli davvero perché il rischio è di non arrivare all’approvazione entro la scadenza del primo decreto. L’esame si concentra per necessità nella prima camera, a cui viene trasmesso il testo e l’altra si ritrova a dover solo ratificare prima che sia troppo tardi.

Decreti minotauro

«I decreti “minotauro” sono una delle cause principali del monocameralismo di fatto», dice Ceccanti, che come presidente del Comitato per la legislazione ha proprio il ruolo di monitorare la qualità delle leggi. Per far sentire più forte la voce del Comitato, Ceccanti e altri tre membri, Devis Dori e Valentina Corneli del Movimento 5 stelle e Maura Tomasi della Lega, hanno presentato alla Camera un ordine del giorno con il quale il parlamento chiede all’esecutivo di limitare i decreti “minotauro”. Nonostante il governo avesse inizialmente espresso un parere negativo, il documento è stato approvato quasi all’unanimità dall’aula.

Il fenomeno in realtà non è nuovo, ma non si è mai verificato con la frequenza dell’ultimo anno. La motivazione è certamente da ricercare nella crisi sanitaria che ha imposto un costante aggiornamento delle norme, anche da un mese all’altro. Secondo il Comitato, tuttavia, questa esigenza è stata estremizzata e bisogna evitare che diventi la prassi.

L’ammonimento non riguarda solo il ruolo del parlamento. Già nel 2018, una sentenza della Corte costituzionale su un decreto del 2015 aveva valutato negativamente il gioco di scatole cinesi di fondere più testi in uno solo. Secondo la Consulta, un iter di questo tipo causa un «pregiudizio alla chiarezza delle leggi e all’intelligibilità dell’ordinamento». In altri termini, i decreti “minotauro” rischiano anche di essere più oscuri, mentre, al contrario, il legislatore avrebbe l’obbligo di scrivere i provvedimenti in maniera comprensibile.

Un limite ai Dpcm

Nella stessa seduta del 20 gennaio, un secondo ordine del giorno, firmato dagli stessi membri del Comitato per la legislazione e approvato dall’aula, ha chiesto al governo di contenere un’altra “cattiva abitudine” legislativa: l’abuso dei decreti del presidente del Consiglio la cui durata è stata di recente estesa da trenta a cinquanta giorni.

I Dpcm concentrano i poteri nelle mani del premier e, a differenza dei decreti legge, non devono nemmeno essere controfirmati dal presidente della Repubblica. Sono stati giustificati e tollerati come misure in risposta all’emergenza, ma in quanto tali devono rispondere a dei criteri precisi. Uno di questo è proprio la durata temporanea e, secondo il Comitato, non dovrebbe andare oltre i trenta giorni.

Anche perché, spiega Ceccanti, «se i Dpcm arrivano a coprire cinquanta giorni non si capisce perché non possano essere decreti legge, che scadono dopo sessanta ma devono passare dal Quirinale e dalla conversione del parlamento con la possibilità di modificarli».

 

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