I fatti sono oggettivi: nel nuovo governo di Mario Draghi le donne ministro sono appena un terzo su 23. Di queste, nessuna è del centrosinistra. La Lega ha Erika Stefani, il Movimento 5 Stelle ha Fabiana Dadone, Italia Viva conferma Elena Bonetti mentre le due più note sono Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, in quota Forza Italia.

Il Partito democratico e Leu, invece, hanno ottenuto quattro dicasteri e tutti sono andati a ministri uomini, con buona pace delle battaglie per la parità di genere scritte nello statuto dem.

Veniamo alle polemiche. Nei due giorni dal giuramento del governo, i social network sono diventate lo sfogatoio delle donne del Pd e le chat hanno ribollito di rabbia e rivendicazioni. Solo per elencarne alcune: la deputata Lia Quartapelle ha sentenziato che «Berlusconi è stato più bravo di Zingaretti». Laura Boldrini le fa eco:  «Insopportabile affermare la parità nei documenti e poi ignorala nelle scelte politiche. Per rimediare non basterà qualche posto da sottosegretaria». Debora Serracchiani è amara: «Ma non ci sono più scuse nemmeno per le donne dem, che hanno da imparare una dura lezione: nessuno spazio ci sarà dato per gentile concessione». Stesso tono anche per Giuditta Pini: «Segnalo che continuare con il metodo tutte le prime file uomini e le seconde con un po' di donne ha stancato. Sia in segreteria, che nei gruppi, che adesso nel governo». Chiara Gribaudo riassume: «Mettiamo sempre la parità di genere nei documenti e poi la neghiamo di fronte al Paese? Un cattivo esempio, un brutto segnale. Correggerlo non sarà facile».

Al momento della lettura della lista dei ministri, del resto, la dirigenza del Pd ha subito capito che si sarebbe posto un problema. Il segretario Nicola Zingaretti ha provato subito a limitare i danni ed è intervenuto con un post di Facebook, scaricando la colpa della mancata rappresentanza femminile sul presidente del Consiglio Mario Draghi. «In questi mesi, nel lavoro di ricostruzione del partito, abbiamo scommesso molto sulla valorizzazione della forza e della risorsa delle donne» ha scritto, aggiungendo che «Nella selezione della componente del Pd nel governo questo nostro impegno non ha trovato rappresentanza. Pur rispettando i criteri di autonomia dei ruoli farò di tutto perché questo si realizzi nel completamento della squadra di governo». 

Quel che si dice al Nazareno è questo: Zingaretti aveva fatto presente il problema a Draghi, ma il presidente incaricato ha fatto prevalere altri criteri.

In ogni caso, il danno è ormai fatto e non c’è modo di contenerlo. Anzi, a peggiorare le cose è proprio la precisazione di Zingaretti sul tentativo di rimediare «nel completamento della squadra di governo». Tradotto dal politichese, significa che per compensare l’assenza di ministre si correrà ad assegnare alle donne i ruoli di sottogoverno come premio di consolazione.

Le correnti interne

Eppure, il dibattito che ora si sta consumando soprattutto sui social ma anche nelle assemblee di partito – fatto di politici uomini silenti e politiche donne furenti – aggira il punto chiave, che poi è l’unica vera spiegazione del perchè Forza Italia abbia due donne ministro e il Pd nemmeno una.

Al netto della distanza evidente nella struttura interna dei due partiti, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna sono due “prime file” dentro Forza Italia. In gergo politico, la “prima fila” è il politico che è il punto di riferimento e guida un'area interna al partito. E’ una prima fila perchè, se bisogna indicare un nome rappresentativo, il suo è il primo da scrivere in cima alla lista. Dunque, nello scegliere i nomi dei ministri, Draghi ha individuato in Gelmini e Carfagna due esponenti di primo piano della loro area politica, funzionali a rappresentare un’area.

Avrebbe potuto fare lo stesso nel Pd? Questa è la domanda a cui le stesse donne dem stanno rispondendo di no. La più esplicita nel farlo è Serracchiani: «Le donne si sono forse illuse che funzionasse essere “in quota” a capicorrente o inserite per prossimità anziché per competenza o consenso. Invece parlano i fatti».

Uomini sono i due capigruppo, Andrea Marcucci e Graziano Delrio, uomo è il segretario Nicola Zingaretti, uomini erano i membri della delegazione che si è confrontata con Draghi e ora anche tutti i ministri. Del resto, pensionata la generazione di Anna Finocchiaro, Livia Turco e Rosi Bindi (l’unica donna che si sia mai candidata alla segreteria del Pd), i nomi delle donne del Pd sono sconosciuti ai più.

«Per il women new deal c'è tempo compagne, oggi no, domani neanche, dopodomani sicuramente, lo metteremo in un odg», scrive ironicamente Giuditta Pini. Ed è la sintesi più amara.

I sottosegretariati

La domanda per il Pd ora è: come uscirne. E la sensazione è che il rimedio rischi di essere peggiore del danno, se veramente i dem indicheranno tutte donne nei posti di sottosegretario. Si tratterebbe, infatti, dell’esatta dimostrazione dell’errore iniziale: nel Pd, le donne trovano spazio solo se indicate da qualche uomo, per altro per compensare a un errore fatto.

Il dibattito, tuttavia, prosegue e la linea delle donne è duplice.

Da una parte c’è chi indica il problema nel correntismo interno del partito: «Occorre scardinare l' assetto delle correnti che schiaccia il protagonismo femminile e impedisce il rinnovamento», dice Boldrini. «Non ci sono più scuse nemmeno per le donne dem, che hanno da imparare una dura lezione: nessuno spazio ci sarà dato per gentile concessione», conclude Serracchiani. Nessuna, tuttavia, si spinge ad attaccare davvero il sistema di potere interno al partito e in particolare il segretario Zingaretti: la scelta finale è spettata a Draghi, ma la responsabilità politica di non aver saputo portare sul tavolo del confronto la parità di genere e nomi femminili convincenti è del segretario.

Dall’altra c’è l’interrogativo sul da farsi. I sottosegretariati verranno sicuramente offerti, la domanda è se le donne dem li accetteranno.

Se sì, su di loro peserebbe l’incognita sul fatto che la scelta sia caduta su di loro solo per «riparare un vaso rotto con il nastro adesivo» come dice Serracchiani.  

Se no, allora si aprirebbe la partita vera: rifiutare i posti “concessi” dalla direzione maschile e iniziare a contendere la leadership interna al partito. Così che, nelle future consultazioni per i futuri governi, le donne non debbano aspettare di venir nominate per concessione di qualcuno.

La prima strada ricuce uno strappo in un momento politico in cui si predica l’unità nazionale, la seconda richiede coraggio. Vedremo se vincerà la tentazione di rinviare il tema della leadership femminile nei partiti di centrosinistra sempre al prossimo ordine del giorno in assemblea.

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