All’interno dell’ampio dibattito sulle ragioni della sconfitta della sinistra, dopo il voto del 25 settembre, si è fatta strada una tesi che vorrei chiamare “culturalista”. Mi riferisco all’interpretazione secondo cui la prima responsabilità del fronte progressista, l’errore che gli è costato nel tempo la perdita di consensi tra la classe lavoratrice, risiede nel linguaggio.

Cito, tra altri esempi che sarebbero possibili, le parole di due scrittori di pregio. Il primo è Emanuele Trevi che, intervistato da Repubblica, ha parlato di un fondamentale «errore culturale»: aver abbracciato una «cultura del biasimo, concentrata su ciò che non si può fare o non si può dire, opprimente». E dove si manifesta questa cultura opprimente? Nell’uso dello schwa, dice lo scrittore, nelle «norme linguistiche».

Invito chi legge a pensare se ha mai visto lo schwa in un documento del Partito democratico, ma intanto passo al mio secondo esempio. Walter Siti, che in un articolo pubblicato su questo giornale sostiene che «la lotta di classe si è trasformata in una lotta verbale, un ludo oratorio in cui chi sa piazzare le parole più difficili ha vinto». Da una parte ci sono «gli operai», per le quali le parole nuove della sinistra risultano «ostiche», dall’altra una classe politica che ha studiato, che parla di complessità, e ha smesso di farsi capire «dalle persone semplici».

Esiste, è innegabile, un divario di classe sempre più visibile tra i rappresentanti di un partito come il Pd e l’elettorato storico che lo ha abbandonato. E questa distanza si traduce anche in una divaricazione di saperi e di linguaggi. Tuttavia, l’accento che entrambi gli autori pongono sull’arroganza linguistica e la correttezza asfittica della cultura della sinistra politica mi pare che porti il dibattito fuori strada, non aiuti a individuare soluzioni, e finisca al più per solleticare nuovi rigurgiti anti politically correct. In un paese che non sembra proprio soffocare sotto una cappa normativa opprimente.

Il primo difetto di questa visione mi sembra la sovrapposizione impropria tra la sinistra dei partiti e quella dei movimenti, che con la prima ha una relazione tutt’altro che organica. Molte delle critiche rivolte confusamente alla cultura e al linguaggio dei partiti progressisti riguardano in realtà le posizioni più radicali e di rottura con il senso comune che si sviluppano all’interno di movimenti come quello femminista e transfemminista, Lgbtq, antirazzista, decoloniale, ecologista, antispecista. Nei programmi dei partiti che si sono presentati alle elezioni di queste posizioni si avverte, al più, un’eco lontana.

Vedo poi un secondo difetto in questa lettura. La gabbia di ferro della correttezza linguistica è qui rappresentata come l’effetto di una deriva della politica progressista in cui le rivendicazioni identitarie – quelle dei diritti di donne, minoranze sessuali, minoranze razziali – hanno preso il posto delle questioni di emancipazione economica e sociale.

Ma è davvero così? Possiamo davvero sostenere che un partito come il Pd si sia speso “troppo” in battaglie come quelle per i diritti delle persone gay, lesbiche o trans, per la cittadinanza dei figli di migranti, per l’aborto e la salute riproduttiva?

In realtà, il problema di quel partito deriva più dal non essere riuscito a difendere e promuovere in modo convincente né i diritti civili né i diritti sociali, che dall’aver privilegiato gli uni a scapito degli altri. O, detto altrimenti, deriva dal non aver saputo integrare le diverse categorie di diritti fondamentali, anche riconoscendone la coesistenza all’interno delle medesime battaglie.

Lo scontro verbale, di pochi giorni fa, tra Laura Boldrini e alcune ragazze del movimento “Non una di meno” ha evidenziato un aspetto cruciale della critica rivolta ai partiti progressisti dalle classi meno abbienti. L’accusa è quella di difendere un diritto, nello specifico all’aborto e alla salute riproduttiva, solo come vessillo identitario, dimenticando le ricadute materiali dei tagli alla sanità o il problema del costo dei contraccettivi.

Vengo così al terzo difetto della tesi culturalista. In questo discorso, alla figura di un partito progressista interamente votato ai diritti civili e che parla difficile viene contrapposta quella di una classe lavoratrice che a simili questioni si sentirebbe estranea. Ma questa rappresentazione astratta della “classe operaia” o del “popolo” o della “gente semplice”, capace solo di intendere il proprio interesse materiale, e incapace di vedere questo interesse intrecciato a ideali o obiettivi più ampi, non credo che faccia giustizia proprio a quel soggetto a cui la sinistra dovrebbe riavvicinarsi.

L’esperienza del collettivo di fabbrica della Gkn di Campi Bisenzio ha mostrato, per esempio, la possibilità di un incontro tra le lotte per il lavoro e quelle per la giustizia climatica, di un’integrazione tra il linguaggio delle rivendicazioni salariali e quello antidiscriminatorio dei diritti.

Walter Siti conclude il suo articolo con la storia di un gruppo di convegnisti che si ferma a pranzo nella casa di un pescatore, dove uno dei componenti rifiuta l’offerta di «freschissime spigole», per una «scelta etica» vegetariana. Siti nota che sarebbe più etico «non umiliare della povera gente».

Ma si tratta davvero di un’alternativa netta? L’etica universalista per gli intellettuali, i sentimenti per la «povera gente»? La via d’uscita resta solo «màgnate ‘sta spigola», ovvero una versione contemporanea dell’andare al popolo per ritrovare la semplicità, i valori, i gusti di persone che si presumono non raggiunte dalle parole del progresso?

Questo approccio mi pare in seria contraddizione con una visione emancipativa della politica, nonché del ruolo dell’intellettuale. Non è di passatismo e di rigurgiti anti intellettualistici che ha bisogno il progetto di una nuova sinistra, ma di un programma serio per riconnettere le lotte per l’uguaglianza sostanziale a quelle contro le discriminazioni, e le urgenze del presente a una visione del futuro.

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