La fuoriuscita di tre deputati da Forza Italia verso la Lega era il colpo di starter che serviva a far emergere i tanti rivoli di ragionamento che percorrono il centrodestra. Mara Carfagna, per esempio, è da sempre sospettata di volere traslocare dalla nave azzurra verso un gruppo equidistante, o equivicino, alla maggioranza. È stata corteggiata da Italia Viva e poi da Azione di Carlo Calenda. Ma il principio di realtà l’ha fin qui messa al riparo da avventure azzardate. Carfagna si è tolta la soddisfazione di rivendicare la maternità del dialogo fra Pd e Forza Italia: «Il fatto che l’ostilità più assoluta al dialogo venga dal mondo Cinque Stelle dovrebbe illuminarci», ha scritto su Huffington Post, «La prospettiva di un confronto bipartisan sarebbe una catastrofe per il mondo grillino». Il ragionamento vale per Fi, ma è lo stesso per il quale il Pd punta su questo dialogo: ridimensionare il peso dei Cinque stelle.

Venerdì a Montecitorio è sfumata l’ipotesi di due relatori alla manovra, proposta da Fi e caldeggiata da Pd. La scelta è stata presa «in modo consensuale», fanno sapere da Fi, per non mettere sotto stress i due schieramenti: nella maggioranza era certo il veto M5S, nell’opposizione quello della Lega. Ma il muro di ghiaccio si sta sciogliendo. Anche e soprattutto in vista della scelta del prossimo inquilino del Colle. Al di là degli appelli all’unità sui provvedimenti economici, dalla manovra a Recovery fund, per il Pd Forza italia è la sponda indispensabile – l’unica possibile nelle opposizioni – per eleggere un presidente democratico e liberale. Dall’altra parte per Forza italia, più che per l’irrealistica idea di puntare su un suo uomo (o una sua donna, è trasparente l’ambizione della presidente del senato Casellati) sarebbe l’occasione per fare da ago della bilancia.

Ma nell’area liberal di Fi si fa anche un ragionamento diverso. E che rende ancora più evidente l’inemendabile errore politico che Salvini consuma aprendo le porte ai transfughi. L’assemblea che elegge il Colle – a scrutinio segreto – è formata da 1.009 persone: 630 deputati, 315 senatori più i sei senatori a vita. Più i 58 delegati regionali, i grandi elettori: che, con 15 regioni governate dalla destra, sono la carta in più che ha quello schieramento per sfidare la maggioranza. Per eleggere il capo dello stato serve la maggioranza dei due terzi (672 voti), mentre dalla quarta votazione in poi basta la maggioranza assoluta, cioè il 50 per cento più uno (505 voti). Se Salvini abbandonasse le esibizioni di forza e anziché puntare a dividere il centrodestra, quindi a indebolirlo, mettesse sul piatto un nome capace di tentare i Cinque stelle, o almeno la parte in sofferenza verso l’alleanza giallorossa, il centrodestra potrebbe tentare una partita oggi proibita.

Un presidente della Repubblica non ostile sarebbe un investimento per una coalizione che, a oggi, ha le carte per perdere la partita del Colle ma vincere quella successiva delle politiche. Discutere di nomi è «prematuro», dicono tutti. A sinistra le ipotesi si affollano, già segnano sanguinosamente le polemiche interne al Pd e mettono di cattivo umore il premier Conte. Ma a destra i profili per un’operazione del genere sono meno: quello del presidente della Consob Paolo Savona è il primo che scivola nelle conversazioni. Un ministro del governo gialloverde, indicato dalla Lega, che non dispiaceva ai grillini prima maniera, a cui il Quirinale a suo tempo sbarrò l’ingresso all’economia. Uomo al centro di polemiche, titolare di una proposta di riforma della Bce che voleva il dimagrimento dei poteri del suo presidente. Insomma l’anti-Draghi, tanto improbabile e quanto, tuttavia, insidioso. Che potrebbe piacere a quelli che vogliono tornare al M5s delle origini. Quello di Savona è solo un esempio. Per percorrere una strada difficile, un viottolo, che presuppone un’intelligenza politica, e strategica, che fin qui il leader leghista ha dimostrato di non di avere.

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