La lunghissima giornata di trattativa della maggioranza sul decreto legge “aiuti” finisce male, con una scena impacciatissima a Montecitorio, una clamorosa papera del governo. Quando finalmente, dopo alcuni rinvii, l’aula viene convocata alle 18 e 30, parla per prima la sottosegretaria Caterina Bini (Pd) e chiede a nome dell’esecutivo un’altra ora di tempo. L’accordo con i Cinque stelle per evitare un voto di fiducia che però è inevitabile, non c’è. «Ci sono problemi» ammette Bini.

Dopo un attimo arriva in aula, trafelato, il ministro dei Rapporti con il parlamento Federico D’Incà. Stava al telefono con «qualcuno», racconterà di aver avuto difficoltà a parlare con il premier Mario Draghi (e può essere anche, del resto era ad Ankara). Chiede e ottiene subito la parola dal presidente di turno Ettore Rosato, e di nuovo a nome del governo chiede di rimandare la discussione in aula. Ma a mercoledì mattina. Dai banchi di Fratelli d’Italia si scatenano le ironie. «Spiegateci almeno qual è il problema, avete problemi in famiglia?», attacca Francesco Lollobrigida.

Fratelli coltelli

Problemi in famiglia in effetti ci sono, e molti. Nella famiglia dell’ex campo largo, particolarmente. Da una parte i Cinque stelle resistono resistono resistono contro un voto di fiducia che li costringe a votare a favore del governo contro cui però da giorni dicono peste e corna. Dall’altra parte Lega e Forza Italia avvertono palazzo Chigi di non assecondare i capricci dei Cinque stelle altrimenti agiteranno le loro bandierine, dalla cosiddetta pace fiscale al cosiddetto controllo dei confini (tradotto: rottamazioni di cartelle e giro di vite sulle politiche migratorie).

Se si ritira una fiducia ormai quasi annunciata e si dà «agibilità politica a Conte», spiegano dal Senato dove Matteo Salvini arriva nel pomeriggio, la Lega dovrà necessariamente battere un colpo. Anche perché senza fiducia si aprirebbe un «problema politico» sul reddito di cittadinanza modificato da Forza Italia e leghisti (criteri più stringenti in caso di rinuncia a lavori offerti anche da aziende private e non necessariamente dai centri di impiego). Modifica naturalmente indigeribile per i grillini.

La Lega allora non ci sta

Insomma, se si tocca qualcosa a favore di M5s, dall’altra parte le destre di governo chiederanno qualcosa in cambio. A rischio di far saltare un decreto che pesa quasi una ventina di miliardi di aiuti reali e che deve essere approvato al Senato entro il 15 luglio. In mezzo, fra M5s e destre, c’è il Pd.

Il partito di Enrico Letta fa da sponda a Giuseppe Conte contro il voto di fiducia per evitare che i parlamentari costringano il presidente azzoppato a fare quello che non vuole e cioè annunciare uno strappo, anche uno strappetto, l’appoggio esterno al governo. Che forse non chiuderebbe l’esperienza di Draghi a palazzo Chigi ma certo chiuderebbe qualsiasi ipotesi di alleanza alle politiche. Ma anche la presidente dei deputati Pd Debora Serracchiani a un certo punto perde le staffe, tanto che in serata deve smentire «attriti» con i Cinque stelle, «riteniamo che il lavoro in commissione sia stato proficuo. Se si può migliorare un testo, come con il superbonus che va nell’interesse degli italiani, noi siamo sempre favorevoli».

Per il resto all’ipotesi dello strappo non crede nessuno, e da palazzo Chigi assicurano di non aver avuto segnali di rotture immediate. Oggi pomeriggio alle 16 e 30 Conte salirà nello studio del presidente Draghi. Alla ricerca di qualche «concessione» che possa essere sbandierata come vittoria e che comunque salvi la faccia al Movimento e gli consenta di restare nella maggioranza. A questo serve il rinvio a stamattina: a rallentare il voto di fiducia, e farlo arrivare dopo una pace fatta fra premier ed ex premier.

La trattativa governo-M5s

Fino all’ultimo quindi si tratterà a oltranza sul decreto aiuti, o almeno così viene raccontato ai cronisti. Su poche modifiche ancora possibili: la prima sul superbonus, articolo 13. Il Movimento punta a rivedere le regole che prevedono la responsabilità in solido in caso di cessione dei crediti. Ma il governo stoppa: non ci sono le coperture. La seconda sul reddito di cittadinanza, la cui nuova formulazione è indigesta ai Cinque stelle.

Non ci sarebbe niente da fare invece sull’inceneritore, ovvero sui poteri concessi al sindaco di Roma, in qualità di commissario al Giubileo, che gli consentiranno di costruire la fatidica ciminiera che i grillini considerano tanto «inutile» quanto «inaccettabile». Che è stato il vero casus belli, scatenato dagli annunci anzitempo di Roberto Gualtieri, e dai trionfalismi con cui è stato accolto da parte Pd, a partire dal segretario Letta.

Tutta la vicenda, che peraltro va avanti da settimane, non è precisamente una dimostrazione di salute per l’ala sinistra della maggioranza. La Lega, che quanto a guai interni non è seconda a nessuno, però può prendersi qualche soddisfazione lasciando filtrare commenti indignati: «Siamo increduli per lo spettacolo offerto dal campo largo che si sta stringendo a vista d’occhio. Siamo fermi da tutto il giorno per i litigi interni al centrosinistra che rischiano di bloccare 15 miliardi di aiuti per famiglie e imprese italiane».

Dal governo, ala Cinque stelle, si prova ad attenuare l’effetto ridicolo. Quello che era atteso nell’aula della Camera per il via libera all’esame del dl aiuti, martedì sera, era un emendamento per il miglioramento del superbonus, viene spiegato. Senza il via libera a quella modifica i Cinque stelle non avrebbero potuto votare la fiducia. Insomma, oggi la voteranno e la «crisetta di governo» sarà chiusa, almeno per questa volta. Anche se in serata per D’Incà la questione non è ancora data per scontata. «In stretto collegamento con la presidenza del Consiglio, ho sondato tutte le forze della maggioranza per capire se fosse possibile trovare un accordo per evitare di porre la questione di fiducia sul decreto Aiuti», fa sapere. «Valuteremo nelle prossime ore come procedere».

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