Le mie vacanze natalizie sono andate più o meno così: un mese fa dico “Basta, sono due anni che non vado all’estero, per Natale prenoto una settimana a Parigi”. Il giorno il tg parla di incremento di casi in Francia. Faccio tipo quelli che vedono il mare ritirarsi prima dello tsunami. Continuo a giocare a racchettoni. Una settimana dopo il tg parla di picco di casi in Francia. Innesco il meccanismo della negazione. I francesi esagerano sempre, per loro Monica Bellucci è una grande attrice, vatti a fidare.

La settimana dopo i tg dicono che la Francia è il più grande focolaio d’Europa, ma vabbè, nel 2006 si diceva fossero la più grande squadra del mondo, poi s’è visto come è finita. La settimana di Natale i tg riferiscono che il Covid in Francia sta facendo più danni dei sei album di Carla Bruni e allora dichiaro la resa.

Chiamo l’hotel parigino, spiego che la situazione s’è fatta complicata. Quando il tizio francese, per minimizzare, si sforza di palare in italiano, capisco che la situazione è veramente grave. Disdico, mi viene rimborsato tutto. Capisco che la situazione è drammatica.

Piano B

Prenoto cinque giorni in montagna, in Italia, ad una cifra per cui potrei comprarmi il Cervino. Nei giorni che mi separano dalla vacanza evito di incontrare chiunque, onde evitare quarantene da contatti stretti. Il 26 dicembre mio figlio, in vacanza da quella mattina col padre, mi telefona. “Mamma sono positivo”. Rispondo “Non ho figli, non ti conosco”. Ma niente, ho la cicatrice del cesareo, non posso mentire. Seppur negativa al tampone, entro in quarantena. Non posso più partire.

Chiamo l’hotel in montagna per disdire. Il tizio è così gentile che lui, seppur italiano, inizia a parlarmi in francese. Non mi restituisce la caparra. Faccio un rapido calcolo di quanto potrebbe costarmi un processo per epidemia colposa.

Decido comunque di rispettare la legge e di non partire, augurando al tizio che il riscaldamento globale faccia il suo corso e che sulle piste da sci davanti al suo hotel crescano a breve alberi da cocco. Mi collego a un sito di quelli per farsi portare la spesa a casa pensando di avere un’idea geniale.

Mi ricordo che solo in Lombardia siamo in 70.000 in quarantena quando scopro che i prodotti ancora disponibili sono un Condiriso Peperlizia, due etti di farro soffiato e la birra analcolica allo zenzero. Mangio i gerani del terrazzo. Con un ingegnoso sistema di ami e catapulte mangio anche quelli del vicino.

Al quinto giorno di quarantena senza sintomi (a parte quelli da avvelenamento) e negativa anche al secondo rapido, cambia il protocollo. Posso uscire autosorvegliandomi. Mi guardo allo specchio, sembro ok.

Piano C: Venezia senza green pass

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Il 31 dicembre opto per Venezia. Prenoto un cenone risarcitorio in un ristorante in centro. Costa come la caparra per il soggiorno in montagna più il valore ipotecario dell’hotel, ma è una sala piccola, per il Covid sembra meno rischiosa di altre soluzioni. Prenoto. Chiedono il pagamento anticipato

. Al mio arrivo Venezia è sotto una coltre di nebbia così fitta che non escludo di essere uscita a Verona. Il tizio del taxi acqueo mi chiede 80 euro senza scontrino, sono indubbiamente a Venezia.

Alle 21,30 in punto giungo al ristorante. Accoglienza gentile, “volete darci i cappotti?”, “benvenuti!”, mille convenevoli tranne uno: la richiesta del green pass.

Entro nella saletta riservata che è così disposta: una quarantina di coperti, la densità abitativa dello slum di Mumbai, tavoli pericolosamente vicini. Tavoli, poi, è una parola grossa. Il nostro, più che un tavolo, è un vassoietto da caffè sospeso, con due tovagliette di quelle da colazione in b&b a Tenerife.

Alla nostra sinistra c’è una coppia austriaca che ha più o meno l’età del Leone di San Marco. Lui sembra il principe Filippo d’Edimburgo nel suo stato di vitalità attuale, ovvero deceduto. Alla nostra destra spicca una tavolata di otto russi con un tizio a capotavola che ha tutta l’aria di essere quello che ha messo il veleno nelle mutande di Alexei Navalny. Aderiscono a tutti i cliché possibili: donne algide e bellissime, uomini in piedi a brindare per qualunque cosa che potrebbe essere “Buon anno!” come “Bombardiamo Kiev!”.

Al tavolo insistono nel non chiederci il green pass. Allora io, innervosita, mi alzo e vado all’ingresso lamentandomene. L’addetto alla sala mi riconosce, capisco dai suoi occhi che è tentato di implorare lo status di rifugiato politico al tavolo dei russi, come Snowden. Balbetta qualcosa, gli è sfuggito, noi siamo gli unici due a cui non è stato chiesto. “Ora lei non è che lo scrive sul Foglio”, dice. “Scrivo per Domani”, dico. Il tizio si toglie il grembiule e si butta in un canale.

L’antipasto è uno spiedino di piovra, in cui non si capisce, per consistenza, quale sia la piovra e quale lo spiedino. Seguono due tortelli con due vongole, dal sapore sorprendentemente equilibrato: non sanno di nulla né i tortelli né le vongole. Poi c’è un filetto di branzino con una carota la cui dimensione è il doppio di quella del branzino. Tra parentesi, è una carota baby. Un sorbetto agli agrumi così sapientemente descritto dal ragazzo romano alle mie spalle: “Me pare de magnà un mandarino”. Un filetto di manzo ai frutti di bosco, tipica portata altrimenti detta “Abbiamo sei chili di manzo in cella da ottobre, li mettiamo nel menù di Capodanno?”.

Infine, il dolce: un pandoro con dentro il gelato col dentro il cioccolato con dentro le ultime volontà dell’austriaco accanto a noi. Il quale allo scoccare della mezzanotte soffia con una foga insospettabile nel fischietto di plastica omaggio sui nostri tavoli. E così tutti gli altri, i russi, gli inglesi, gli spagnoli, i romani.

Tutti che soffiano dentro quel fischietto, soffiano, soffiano, soffiano, e mentre gli altri vedono l’anno che verrà, io vedo le particelle di aerosol che si liberano nella saletta.

Vado via scocciata, promettendo che non scriverò il nome del ristorante nella mia recensione, tra parentesi l’atto di clemenza più clamoroso della storia dopo il perdono di San Giovanni Paolo II ad Ali Agca.

Il giorno dopo pranzo in un altro famoso ristorante, nessuno chiede il green pass, me ne lamento col proprietario.

Anche lui specifica: «Siete gli unici due a cui non l’ho chiesto». Siamo ufficialmente i primi discriminati col green pass.

Vado in una famosa cicchetteria per uno spritz, nessuno del personale indossa la mascherina. “Non respiro”, mi spiega il proprietario con strafottenza. Neanche io.

Torno in hotel, non esce acqua dai rubinetti. Sono in una città costruita sull’acqua e non c’è acqua. Forse è il presidente del Veneto Luca Zaia, forse è il sindaco Luigi Brugnaro che ha preso personalmente a randellate il tratto di rete idrica del mio isolato perché lasci Venezia.

Perché non dica la verità: Venezia è bella, ma in pandemia non ci vivrei.

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