3 gennaio 1954. La Rai ha compiuto settant’anni e si può ben dire che questo paese lo ha cambiato, o comunque lo ha visto cambiare in profondità. Ha inciso sul linguaggio, il costume, fenomeni culturali e mode e atteggiamenti. E naturalmente ha condizionato la politica coi suoi protagonismi e riti.

Le Tribune

All’inizio furono le Tribune. Era il 1960 e molti italiani, molti più che in passato, presero confidenza con volti e voci di ministri, capi di governo, segretari di partito. Per l’Italia che si affacciava al boom non era una novità da poco. I grandi leader riempivano piazze e teatri, ma non c’è dubbio che De Gasperi, Nenni o Parri a passeggio per Roma passassero più inosservati di Conte, Meloni e Schlein.

Altri tempi si dirà, ed effettivamente era così. L’anno spartiacque per varie ragioni fu il 1960. In un pugno di mesi l’Italia aveva vissuto la repressione di Tambroni, la nascita di un nuovo governo sotto la guida di Fanfani, le medaglie olimpiche di Berruti e Benvenuti, la morte improvvisa di Mario Riva, storico conduttore de Il Musichiere. Toccò a Fanfani battezzare la stagione delle Tribune elettorali aperte a tutti i partiti. Requisiti chiesti, la rappresentanza in Parlamento e nei consigli comunali e provinciali di più di una regione.

L’esperimento si rivelò un successo a partire dagli ascolti. Le prime tribune contavano una media di 14 milioni di spettatori. Sintetico e convincente il commento di Achille Campanile sulle colonne dell’Europeo: «C’era da temere che questa parata di programmi elettorali…risultasse un barboso peso nei programmi televisivi… invece, la temuta barba si è rivelata il maggior successo della stagione».

Non era solo l’assenza di un’alternativa, parliamo pur sempre di una tv monocanale, ma il segno di una domanda di politica in un paese restituito con fatica alla democrazia. Quelle prime tribune Rai riflettono lo spirito di un paese in cerca di sé. Sono immagini in bianco e nero, scenografie essenziali, tempi comandati. L’esordio assoluto è datato 11 ottobre 1960. Moderatore Gianni Granzotto, tra i futuri amministratori delegati dell’azienda sotto il potente Ettore Bernabei.

A collaudare il formato fu il ministro dell’Interno, Mario Scelba. Si presentò con una grisaglia d’ordinanza, qualche incertezza e un tono colloquiale. Inutile azzardare paralleli tra quelle battute e una delle gazzarre alle quali siamo abituati. Scelba se ne uscì così: «Tocca a me il compito di aprire questo dibattito elettorale nella mia qualità di ministro dell’Interno…Non possiamo avere le qualità fisiche di coloro che sono così popolari. Vi dovrete accontentare di quello che vi possiamo offrire e accettare tutti, belli e brutti che siamo, e così come siamo fatti».

Togliatti e ballerine

Ora, di una vera par condicio per la verità non si trattava dal momento che il governo aveva ottenuto uno spazio aggiuntivo rispetto ai partiti. Per capirci, un terzo del tempo alla maggioranza, un terzo al governo, un terzo alle opposizioni. Nelle serate a seguire fu Aldo Moro a escludere ogni alleanza con i post-fascisti, provocando la replica piccata di Arturo Michelini, all’epoca segretario del Movimento sociale. Quel primo ciclo venne chiuso dal capo del governo e Fanfani se ne uscì con un’immagine da riascoltare con un moto di tenerezza: «La Tribuna elettorale della Rai-Tv ha portato la politica nelle case. Non per turbarne la serenità ma per raccogliere attorno al focolare dei tempi moderni – gli schermi televisivi – babbi, mamme e figlioli, a discorrere delle cose d’Italia».

La prova della distanza abissale tra quelle parole e noi? L’ho scoperta per caso sul telefonino quando al termine “discorrere” il correttore automatico ha sostituito il più contemporaneo Discovery. Comunque, quel «focolare dei tempi moderni» era la massima contaminazione della retorica tradizionale con le novità del mezzo. Il modo di chiedere permesso da parte di personaggi carichi di biografie spesso straordinarie e che della televisione sapevano poco o nulla. Ciascuno a modo suo cercava di riversare in quel debutto una parte della storia che aveva alle spalle, ma tanto bastava a pacificare l’animo di intellettuali raffinati come Campanile: per lui quel successo di ascolti dimostrava che per guardare la tv non era «affatto necessario essere degli imbecilli».

Detto ciò, non mancavano provocazioni e scontri verbali. Quanto al fatto che la Rai ospitasse personalità dell’opposizione, questo irritava i più radicali tra gli esponenti di governo al punto che il ministro della Giustizia, Gonella, avrebbe liquidato la televisione come «immorale, filo comunista» e soprattutto responsabile di «aver introdotto le ballerine e Togliatti nel cuore delle famiglie italiane». A certificare come il generale Vannacci sia arrivato molto dopo e fuori tempo massimo.

L’intuizione

Resta che la piccola rivoluzione televisiva si era compiuta e indietro non si sarebbe tornati. Che quella tv avesse o meno un peso rilevante sugli orientamenti del consenso difficile dirlo. In ogni caso tre anni dopo, nel 1963, dalle urne uscì una Dc ammaccata, perse all’incirca quattro punti percentuali, con un incremento di poco inferiore, circa tre punti, per il partito guidato da Togliatti.

Per i comunisti quelle finestre televisive erano un’opportunità, anche se per un bel pezzo continuarono a coltivare una diffidenza di fondo verso lo strumento in sé, almeno fino a quando non fu un giovanissimo Walter Veltroni a modernizzarne l’approccio culturale. Basti ricordare l’estratto di Rinascita, datato 29 settembre 1972, «Siamo a un punto estremamente delicato della vita economica e politica della nazione: e la tv a colori rappresenta un emblema di un tipo di sviluppo che è danno non solo ai lavoratori ma a tutto il paese e alla democrazia». Riletto oggi fa sorridere, o rabbrividire.

Eppure anche in quel campo qualche intuizione si era generata, e in epoca non sospetta. È del 1931 un appunto di Gramsci secondo cui la stampa padronale e la radio «danno la possibilità di suscitare estemporaneamente scopi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di determinati scopi alle elezioni. Basta avere il predominio ideologico (o, meglio, emotivo) nel giorno del voto, per avere una maggioranza che dominerà per tre, quattro, cinque anni». Profetico!

I meriti

Passi avanti però vi furono e quando la programmazione licenziò una riduzione televisiva (si chiamavano così) de I giacobini, uno sceneggiato di Federico Zardi sulla Rivoluzione francese, fu ancora una volta il leader del Pci a soprassedere su alcune imprecisioni storiche spiegando come l’importante fosse che, «… per alcune settimane alcuni milioni di italiani, di tutte le condizioni e di tutte le età, hanno visto e hanno avuto davanti alla mente una rivoluzione, sono stati tratti a pensare, giudicare concretamente, a discutere, a parteggiare». Era il segnale di una televisione che iniziava a condizionare non solo qualche sentimento sparso, ma il modo di pensare di un pezzo dell’Italia che stava cambiando.

Anche per tutto questo l’anniversario di questo 2024, i settant’anni della televisione, dovrebbe spingere a qualche riflessione meno improvvisata su come siano cambiate entrambe, la tv e la politica. In meglio? In peggio? Guai a cadere nel rischio di un rimpianto nostalgico per un’offerta infinitamente meno ricca, creativa, plurale. La televisione italiana, nonostante i suoi acciacchi e alcune miserie, si presenta oggi infinitamente migliore.

Ma se un piccolo merito è bene riconoscere a quella stagione degli albori, direi che stava nel coltivare una distinzione di fondo tra ambiti diversi del costume e del vivere civile. La dimensione della politica, della rappresentanza, della democrazia, non come un corpo separato da conflitti e passioni di un popolo con alle spalle la guerra e la tragedia del ventennio.

Ma una politica consapevole del ruolo che avrebbe dovuto ricoprire nella ricostruzione di quel paese e ciò imponeva al ceto politico un senso di responsabilità, e professionalità, che il tempo ha seriamente indebolito. E allora, possa essere questo anniversario l’occasione per riordinare qualche idea sulla giusta gerarchia di principi e valori. Consapevoli che, al fondo, neppure l’Italia si meritava un capodanno col deputato fascista vestito da cowboy.

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