Il successo del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari è una vittoria a metà per il Movimento 5 stelle che è andato male alle elezioni regionali, scendendo sotto i risultati raggiunti alle elezioni del 2015 persino nelle regioni dove in questi anni era cresciuto di più. La campagna elettorale, inoltre, ha mostrato un partito diviso, senza una linea politica e senza una guida chiara. Sono problemi che difficilmente si potranno risolvere prima degli “stati generali”, il congresso di partito che sarà probabilmente annunciato nelle prossime settimane e che dovrebbe scegliere una nuova guida per il partito, stabilire nuove regole e dare una nuova linea politica.

I capi del Movimento hanno cercato di sottolineare come potevano l’importanza storica della vittoria al referendum. Il primo a parlare, poco meno di due ore dalla chiusura dei seggi, è stato il capo politico ad interim Vito Crimi che ha definito il referendum un «risultato straordinario» e ha annunciato le prossime riforme che il Movimento sosterrà: taglio dell’indennità dei parlamentari e una nuova legge elettorale.

Le stesse parole sono state ripetute poco dopo dal ministro degli Esteri ed ex capo politico del Movimento Luigi Di Maio, che ha ribadito non solo l’importanza storica della vittoria del Sì e la necessità di tagliare l’indennità dei parlamentari, ma ha anche specificato che la prossima legge elettorale dovrà essere di tipo proporzionale.

Per rilanciare il partito, Crimi e Di Maio sembrano quindi puntare su una rinnovata battaglia “anti casta”, sfruttando il traino del successo del referendum. Ma questo argomento non sembra più garantire il consenso elettorale e la visibilità di un tempo. Nonostante quasi il 70 per cento degli elettori abbia votato a favore del taglio dei parlamentari, il Movimento 5 stelle, la forza che ha più spinto a favore della riforma, è dato dai sondaggi al 15 per cento dei voti, il risultato più basso della sua intera storia parlamentare.

Le regionali hanno confermato che la battaglia anti casta, da sola, non è in grado di far recuperare al Movimento i consensi del passato. Il Movimento è andato male in Liguria, dove si era alleato con il Pd e gran parte del centrosinistra per sostenere la candidatura del giornalista Ferruccio Sansa, ma anche in Toscana, Marche e Veneto, dove correva da solo.

Erano regioni in cui i dirigenti del Movimento non si aspettavano grandi risultati. Il problema è che il partito è andato piuttosto male anche in Campania e Puglia, le due regioni che negli ultimi anni ne avevano costituito il principale serbatoio di voti. Alle politiche del 2018, ad esempio, il M5s aveva ottenuto un risultato record in Campania, raccogliendo 1,5 milioni di voti, più del 50 per cento del totale. Sempre alle politiche del 2018, in Puglia aveva raccolto il 45 per cento e quasi un milione di voti. Alle successive europee 2019 aveva subito un ridimensionamento, ma aveva comunque ottenuto il 33 per cento in Campania e il 26 in Puglia. Oggi, il Movimento è invece destinato a scendere sotto il risultato delle regionali del 2015 quando prese il 17,5 in Campania e il 18 in Puglia.

Di Maio non ha nascosto la sua delusione per questi risultati al di sotto delle aspettative. In un raro momento di critica aperta al proprio partito ha detto che le regionali «potevano essere organizzate diversamente» e che il Movimento avrebbe potuto utilizzare una «strategia» differente. «Voglio però ribadire la mia piena fiducia a Vito Crimi e a chi lavorato alla composizione delle liste», ha aggiunto.

Ma l’ex leader grillino ha anche di che rallegrarsi. Quello che è ormai diventato uno dei suoi principali avversari interni, Alessandro Di Battista, che vorrebbe riportare il Movimento all’opposizione il prima possibile, si è impegnato in un unico comizio negli ultimi mesi: la chiusura della campagna elettorale in Puglia, in cui ha attaccato duramente il candidato del Pd, il presidente uscente Michele Emiliano. Di Battista però è uscito malmesso da questa tornata elettorale: infatti non solo Emiliano ha vinto, ma il Movimento 5 stelle locale è uscito quasi dimezzato rispetto alle ultime regionali.  

A differenza di Di Battista, Di Maio per il momento punta sull’alleanza con il Pd e avrebbe voluto accordarsi con i democratici in un numero più alto di regioni. Ci è riuscito in Liguria e a Pomigliano d’Arco, la città di 40mila abitanti in provincia di Napoli dove vive la sua famiglia, e in cui ha raggiunto un accordo per candidare a sindaco, insieme al Pd, Gianluca Del Mastro, professore all’Università Federico II di Napoli (lo spoglio per il voto delle amministrative inizierà soltanto domani). Ma per il resto la sua strategia è stata quasi ovunque ostacolata dagli iscritti locali. In Puglia, gli attivisti guidati dalla candidata presidente Antonella Laricchia (un’ex alleata di Di Maio oggi sostenuta da Di Battista) si sono opposti all’alleanza dopo aver incontrato il presidente uscente Emiliano, mentre nelle Marche e in Toscana gli iscritti locali sono rifiutati persino di iniziare la trattativa.

Questi pessimi risultati e la debolezza in termini di consenso elettorale della battaglia per il taglio dei costi della politica costringeranno presto il Movimento ad affrontare i numerosi problemi che lo affliggono: la mancanza di una leadership chiara, l’assenza di una linea politica e la sua frammentazione interna.

Non si conoscono ancora né le regole né le modalità con cui si svolgeranno gli “stati generali”, il futuro congresso del Movimento. Gli iscritti alla piattaforma Rousseau saranno probabilmente chiamati a decidere su alcune decisioni fondamentali, ad esempio se continuare con l’attuale struttura monocratica, basata sul “capo politico”, o se invece passare a una struttura collegiale. I dettagli dello svolgimento del congresso saranno probabilmente stabiliti da una commissione la cui formazione potrebbe essere annunciata nei prossimi giorni. Ci vorrà un po’ di tempo in più, invece, per sapere se questa mossa riuscirà ad arrestare il declino del partito.

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