Sei puntate non fanno primavera, ma in tempi di guerra ibrida, di propagandisti più o meno in buona fede ospiti fissi in tv, vale la pena buttare un occhio su un talk show agli antipodi. “A Cena da Maria Latella”, andato in onda per sei puntate, appunto, su Sky, è tutto il contrario di quello che passa quotidianamente il convento: niente risse, niente hate speech, quando il confronto si riscalda, arriva la cena. Noia bestiale? No, Latella racconta che gli ascolti sono andati bene e su un pubblico trasversale. Si raccomanda: «Non do pagelle, sono tutti bravi». Solo che lei ha proposto una cosa tutta diversa. Che viene da un curriculum di gran lavoratrice: per più di vent’anni inviata del Corriere della sera, editorialista del Messaggero, radiofonica di Radio 24, conduttrice Sky. Attenta alle questioni di genere, nominata cavaliera della Repubblica dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. Scrittrice, autrice del famoso Tendenza Veronica (Rizzoli 2004), il libro che ha fatto conoscere l’animo della moglie di Silvio Berlusconi prima del diluvio delle cene eleganti, e di Fatti privati e pubbliche tribù. Storie di vita e giornalismo dagli anni Sessanta a oggi (Edizioni San Paolo, 2017). L’idea del dinner talk viene da tanta esperienza accumulata. «L’autunno scorso venivamo da due anni quasi di immersione nella pandemia. E c’era una gran voglia di rivedere persone, di sentire le opinioni vis à vis. Ma in tv l’offerta era ferma al rituale teatrale del talk show. Il talk show è teatro: c’è Arlecchino che le dà a Balanzone, Corallina che fa la preziosa, poi arriva Pulcinella. Un copione sempre uguale alla Commedia dell’arte dal 700 alla tv. Ho provato a scrivere una proposta che avesse un criterio di autenticità. Senza troppe parti in commedia».

L’autenticità in tv è un ossimoro. O no?

Dov’è che si è autentici? A tavola. Perché non ci si tira i piatti addosso, altrimenti la cena finisce. La cena è per tradizione in luogo della conversazione. Si parla di tutto, si affrontano temi anche pesanti ma con un quid di leggerezza, necessario dopo due anni di pandemia. Ho proposto questa idea al direttore di Sky TG24 Giuseppe De Bellis, e poi alla società Level 33. Siamo partiti di corsa. Non in uno studio ma in una casa, proprio sopra casa mia (dalla finestra del set si vede un Castel Sant’Angelo mozzafiato, sembra di vedere Tosca buttarsi giù, ndr). A distanza di qualche mese il Moige, il Movimento italiano dei genitori, ha deciso di dare un premio a un programma così diverso dagli altri. Mi ha fatto piacere.

Ha proposto un talk dove non si litiga?

Un talk in cui si parla di temi complessi, come il ritardo digitale o la parità di genere. Discutendo anche appassionatamente. Se troppo, arrivano i rigatoni dei ragazzi dell’Istituto tecnico alberghiero, e si spezza la tensione.

In tv funziona la conversazione civile? È una notizia che giriamo ai produttori?

Ma ci devi credere. La drammaturgia del talk in Italia funziona così: se voglio conquistare un francobollo sugli online dei grandi quotidiani o dei siti mi invento una lite. Poi la faccio arrivare agli online, che la riprendono. Loro fanno i click e io faccio parlare del mio programma. Un circuito vizioso. Ripeto, funziona così solo in Italia, non in Francia e non in Germania. Per anni abbiamo alimentato in tv e sui social l’idea che l’informazione sia insulto permanente e che discutere civilmente non fa audience. Bisogna aggredirsi: così funziona e così fan tutti. Risultato: viviamo in una condizione di perenne conflitto, ci si picchia per un parcheggio, in tv non facciamo che trasmettere offese gratuite, che poi si replicano all’infinito sui social. E così si alimenta la catena. Intendiamoci: il conflitto è sano, l’insulto no. Anche perché se in studio si scatena il conflitto, al telespettatore resta il rumore di fondo. E la rabbia.

Crede che dalla tv parta un modello culturale e che dalla tv possa essere cambiato?

La tv ha una audience anziana, ma se dai al telespettatore un’unica offerta succede che il nonno vede quello, il figlio quarantenne lo clicca sui social, il nipote sedicenne si forma in quest’aria. Non c’è convinzione più ardua da smontare della certezza che se non fai rissa non fai audience. L’ha detto anche Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset: come fai a tenere la gente davanti alla tv per ore se non ci metti un po' di teatro? Ma questo poteva andare bene vent’anni fa, oggi possiamo tentare vie nuove.

Chi è il colpevole? Il conduttore, gli autori, l’editore?

Serve responsabilità da parte di tutti. Del resto è un momento in cui ci si chiede di essere responsabili a più livelli, dal consumo di energia alle regole sanitarie. Non è così esotico porsi un problema di responsabilità anche nel modo di comunicare. D’altra parte i punti di audience che si conquistano con le liti, più o meno autentiche, li abbiamo imposti noi mutuandole dagli Stati Uniti. Siamo sicuri che l’audience non si adegui? Del resto il telespettatore non è contento di queste liti finte, altrimenti non staremmo parlando di crisi del talk show. Certo tenere l’attenzione del pubblico è più faticoso con un pubblico abituato al doping.

Poi c’è la scelta degli ospiti: in alcuni talk si intuisce la rigorosa selezione da bar di guerre stellari. Lei è libera di scegliere un interlocutore autorevole e di scartare il caciarone?

Si, ma non voglio dare lezioni di libertà a nessuno. In Francia per molti anni la formula del dinner talk ha funzionato. Peraltro aveva fatto una cosa simile Philippe Daverio nel campo dell’arte.

Un esempio concreto: mezz’ora di intervista ad Alessandro Di Battista è doping?

Alt, lui è un ospite politico, lì bisogna dare voce a tutti. E Giovanni Floris è bravissimo, come Bruno Vespa, un maestro, anche da lui non si fa rissa. Ma nei talk non ci sono solo politici.

Come si combatte in diretta tv una fake news? Basta la preparazione o c’è un modo per evitare la trappola?

La preparazione aiuta, ma non siamo essere onniscienti né scienziati né studiosi di geopolitica. Quando da un ospite arriva un’affermazione a rischio fake bisogna innescare il principio del dubbio. Se scrivi su un giornale hai la possibilità, cioè il tempo, di verificare. Se sei in diretta invece devi stare attento a non mettere il tuo bollino, non certificare né dare per acquisita l’informazione o presunta tale. Si deve onestà a chi ci segue.

Il Copasir ci avverte che c'è la guerra ibrida, bisogna stare attenti agli agenti della disinformazione.

Con la guerra contro l’Ucraina si è misurata una generazione di conduttori che la guerra non l’ha mai davvero trattata. Ne sapevamo poco, diciamo la verità, ci sono stati l’Iraq e l’Afghanistan, ma non si sviluppavano in una narrativa quotidiana nei talk come oggi. Sul mio comodino c’è un libro: On Intelligence: The History of Espionage and the Secret, del colonnello John Hughes-Wilson. Da prima di Napoleone lo spionaggio e la propaganda hanno influenzato le informazioni, soprattutto in tempi di guerra. E invece noi con ingenuità abbiamo pensato che si potesse trattare il conflitto in Ucraina come un tema qualsiasi. Non è così. È giusto parlare di guerra, ma dovevamo tutti capire prima che sono in gioco informazioni non controllabili. E allora torno alla responsabilità del giornalista: le informazioni dal fronte di guerra arrivano frammentate, non controllabili. Serve un surplus di rispetto verso il telespettatore. Io la guerra la seguo per lo più sulla carta stampata, perché so che i colleghi hanno il tempo di fare qualche verifica. E una pagina scritta anche a me dà il tempo di riflettere, senza l’impatto continuo dell’emotività.

Quasi solo in Italia vengono intervistati i ministri russi. L’intervista con il diavolo si può fare?

Dipende. Deve stare nei patti che gli fai le domande che decidi tu. E deve essere sicuro che hai la possibilità di controbattere. Io ho intervistato Steve Bannon, in quel momento era il diavolo assoluto. Alla terza domanda ha dato segni di nervosismo, si è tolto il microfono e ha fatto la sceneggiata di andarsene. Potevamo fermarci, avevamo il nostro show, saremmo finiti sui giornali comunque, Bannon irritato sbatte la porta dello studio di Sky. Ma non era quello che mi interessava. Volevo finire l’intervista. Quindi ho fatto un’operazione di ricucitura. Ma alla fine le domande che mi ero preparata le ho fatte tutte.

 

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