Non accenna a placarsi il dibattito interno al Partito democratico, dopo quello che è stato vissuto come uno «schiaffo» alla rappresentanza femminile nella scelta di una squadra di ministri tutti uomini. I fatti sono chiari: i tre ministeri sono stati assegnati ai tre rappresentanti (uomini) delle principali correnti: il vicesegretario Andrea Orlando al Lavoro; Lorenzo Guerini, capogruppo della corrente ex renziana di Base riformista, confermato alla Difesa; Dario Franceschini della corrente moderata Areadem confermato alla Cultura.

Dunque, nonostante gli appelli alla parità di genere e le dichiarazioni di intenti contenute nello statuto, nel Pd ha prevalso la dinamica di distribuzione delle cariche da manuale Cencelli: seguita pedissequamente da Mario Draghi e Sergio Mattarella (concreti attuatori della ripartizione delle nomine) ma responsabilità politica del segretario Nicola Zingaretti. Proprio questo sbilanciamento è risultato ancora più evidente a causa del fatto che Forza Italia, storicamente considerata il partito più verticistico e maschilista, abbia due donne ministro su tre: la capogruppo della Camera, Maria Stella Gelmini e la vicepresidente della Camera (fondatrice di un’area autonoma interna agli azzurri) Mara Carfagna. Al netto della distanza tra la forma partito di Pd e Fi, entrambe rappresentano le capofila di una corrente. Cosa che non si può dire di nessuna delle possibili pretendenti a un dicastero in area dem.

La prima e ultima sfidante alla segreteria del partito, infatti, è stata Rosy Bindi, candidata alle primarie nel lontano 2007. Concluso il percorso politico di Livia Turco, ex ministra e parlamentare fino al 2013, e Anna Finocchiaro, in parlamento come capogruppo fino al 2013 e ministro dei Rapporti col parlamento fino al 2018, nessuna altra donna ha ottenuto ruoli di rilievo. Oltre alla parentesi di Debora Serracchiani, ex governatrice del Friuli Venezia Giulia e oggi in parlamento, le ultime donne di provenienza strettamente partitica a rivestire ruoli di responsabilità sono state la renziana Maria Elena Boschi, oggi in Italia Viva, l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti e dell’Istruzione Valeria Fedeli.

Ora il dilemma interno che sta facendo ribollire le chat delle donne del Pd è uno solo: accettare o meno la “compensazione” dei sottosegretariati offerta da Zingaretti. E’ questo è il punto cardine della discussione: dire sì ai ruoli di sottogoverno in ottica di unità del partito e di stabilità del nuovo governo certificherebbe la realtà che le donne del Pd trovino spazio solo se cooptate; dire no significa aprire una faida che avrebbe come diretto punto di caduta il prossimo congresso.

La conferenza delle donne

Il dibattito interno è acceso, di soluzioni precise all’orizzonte non se ne scorge nessuna. Soprattutto, oltre alle prese di posizione individuali di condanna alla scelta del vertice del partito, non è ancora maturata una linea collettiva, nonostante tra le soluzioni prospettate ci siano sia il rifiuto in blocco dei ruoli “concessi” che l’ipotesi – lanciata dalla giornalista Lucia Annunziata – di un transito simbolico di tutte le donne dem nel gruppo misto.

La presa di posizione ufficiale è comparsa sul sito della Conferenza nazionale delle donne democratiche a firma della portavoce Cecilia D’Elia, che ha definito quella attuale una «battuta d’arresto» e detto che «c’è un’enorme battaglia da fare sulla forma partito, sulla selezione dei suoi gruppi dirigenti e sul nostro modo di stare insieme». Concretamente, tuttavia, i prossimi passi non sono chiari. «Probabilmente si accetterà una soluzione di compromesso, con una donna che subentri nel ruolo di vicesegretario ora di Orlando e la conferma delle sottosegretarie uscenti, anche in considerazione del fatto che i ruoli saranno numericamente inferiori rispetto al Conte 2», ipotizza una dirigente del Pd, scettica rispetto al fatto che possa coordinarsi una linea unitaria.

Nessuna, per ora, si è spinta così in là da criticare l’attuale segreteria Zingaretti, che nei fatti porta sulle spalle la responsabilità politica dell’assenza di donne in Consiglio dei ministri. Tuttavia uno degli interventi più apprezzati è stato quello di Roberta Pinotti, secondo cui «bisogna smettere di fare la rivolta del giorno dopo, ma iniziare a costruire il futuro permettendo alle donne di diventare dei leader». Il come riguarda soprattutto la formazione, che è poi il versante meno affrontato del tema: le donne non dovrebbero ambire a ruoli di rappresentanza in quanto appartenenti a un genere, ma perchè portatrici di competenze e rappresentanza. «Io non sono diventata ministra della Difesa dal nulla, sono partita dalla circoscrizione del mio comune. Oggi abbiamo bisogno di ripartire da ruoli di responsabilità negli enti locali e del partito». E Pinotti è forse tra le democratiche che si è spinta più oltre nel lanciare un segnale, dicendo di essere pronta a «dare una mano, per lavorare su come si fa battaglia politica». La sua non è certo una candidatura, ma tutti nel Pd sanno che il prossimo passaggio cruciale in cui misurare anche la capacità di risposta femminile sarà il prossimo congresso. La chiave di riflessione interna, infatti, è una sola: perchè una presa di potere femminile sia possibile è necessario che una donna subentri come testa di serie nel meccanismo correntizio che è ancora alla base degli equilibri del Pd.

 

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