Le cifre degli sbarchi, ormai ai livelli record del 2017, rivelano nel modo più eloquente il vuoto degli sproloqui sentiti in questi anni dalla destra italiana oggi al governo. Nessun pull factor dovuto agli interventi delle Ong, a cui oggi si richiede aiuto per affrontare un fenomeno dilagante. Nessun disincentivo da pratiche che definire crudeli è un eufemismo, come lo sbarco in porti lontani che costringe persone reduci da traversie di ogni tipo ad estenuanti viaggi anche col mare in burrasca.

Nessun timore degli scafisti per la minaccia di inseguirli per «tutto il globo terraqueo». Vuota retorica di quart’ordine che andrebbe messa a fianco alle panzane sul blocco navale di fronte alla Libia (oggi bisognerebbe aggiungere la Tunisia e chissà cos’altro in futuro, inseguendo l’ideale di un blocco navale tendente all’infinito), all’uscita dall’Euro, dalla UE, al filoputinismo di questi anni, alla flat tax, ai rimpatri dei clandestini mai visti, all’abolizione della accise sul carburante.

Assurdità che urtano al banale buon senso create ad arte, e supportate dalle macchine social su cui si sono investiti tempo e denaro per legittimare la rabbia sociale ai fini dell’acquisizione del consenso.

Ora ci si mette pure l’ascesa dell’Albania, di cui l’Italia appare come principale sponsor europeo dopo anni di tweet di questo tenore da parte dell’oggi vicepremier Salvini, l’uomo che non ne ha azzeccata una che sia una dai tempi della secessione: «ALBANIA nuovo Stato candidato a entrare nell’UE, alla faccia di storia ed economia… No a un’Europa Supermercato!».

E ancora: «Facciamo uno scambio? Entrano loro e usciamo noi, che dite?». Gli imprenditori del Nord per primi hanno risposto no. Albanesi a cui dovremmo anzitutto chiedere scusa per il razzismo riversato loro addosso negli anni passati, quando erano eretti a paradigma del criminale così come veniva fatto con gli italiani non troppo tempo prima. Ma il bagno di realtà non sembra fermarsi qui e si stende fino alle elezioni europee del 2024, a cui guardiamo con apprensione.

Bene, a meno che qualcuno non voglia rinunciare all’UE, cosa che non è venuto in mente nemmeno all’euroscettico più sfegatato, si sappia che anche se i partiti per amor di sintesi definiti populisti ottenessero il cento per cento dei consensi, sarebbero costretti a quella sintesi che finora hanno ostacolato in ogni modo per alimentare lo spirito nazionalista su cui hanno costruito le proprie campagne elettorali. In un’Europa tutta «nera» come la si metterebbe col dossier migranti: se li tiene il paese di ingresso o si ridistribuiscono in un’ottica di solidarietà fra paesi membri?

E sui finanziamenti europei prevale il modello rigorista dell’ognuno per sé, strenuamente difeso anche dal blocco di Visegrad, oppure l’idea di una condivisione del debito richiesta dagli stati del Sud? Tutto resterebbe esattamente come prima, stretti come siamo nella morsa del prurito elettorale dell’istante e gli interessi di lungo corso che riguardano l’orientamento strategico di un Paese.

E basta questo insormontabile scoglio contro cui si infrange ogni strategia comunicativa per farci capire il valore di questa UE, anche zoppa, anche ridotta, proprio per volontà di chi la critica, a pachiderma burocratico. Una UE, senza la quale non saremmo sopravvissuti alle ripetute crisi che hanno sconvolto il mondo intero dall’inizio del XXI secolo in avanti.

In vista delle elezioni del prossimo anno, possiamo solo sperare in un’emancipazione dell’elettorato di fronte a tali e tante contraddizioni. Intanto, noi che abbiamo sempre osteggiato una politica ridotta a campagna elettorale permanente e la legittimazione delle più basse pulsioni razziste che abitano ogni individuo, ci godiamo le foto di Giorgia Meloni alla corte di Edi Rama.

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