«Noi contiamo». Andrea Riccardi ha chiuso con queste parole il suo intervento dal palco di piazza San Giovanni, alla manifestazione della pace di sabato 5 novembre.

In quel momento soffiava un vento di tramontana, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio si è stretto nel giaccone, senza cravatta, a differenza di Maurizio Landini, si è unito a cantare Bella Ciao, di cui ha dimostrato di conoscere le parole meglio di Carlo Calenda.

Noi contiamo: dopo mesi di assopimento, la società civile laica e cattolica è tornata in piazza. La notizia va al di là dell’occasione: chiedere il cessate il fuoco in Ucraina, una piattaforma a rischio di ambiguità che i promotori, va detto, hanno cercato in ogni modo di smentire.

I primi passi del governo Meloni coincidono con l’afasia e la spaccatura dell’opposizione. E ancora una volta tocca a una piazza extra partitica dare un segno di risveglio ai partiti che si sono presentati drammaticamente divisi e che hanno finito per fare la notizia: Enrico Letta contestato e quasi spaurito nel corteo, Giuseppe Conte a collo alto come uno chansonnier francese, i presenti, gli assenti. La notizia, invece, era un’altra.

Quante divisioni?

Noi contiamo, ha detto Riccardi, ma quanto contano? Di quante divisioni dispone la società civile organizzata? Non è la prima volta che accade.

Nel 1994, il 25 aprile, a Milano una scia di ombrelli colorò la manifestazione antifascista dopo la prima vittoria della coalizione di Silvio Berlusconi, c’era anche un partito di governo, la Lega di Umberto Bossi, orgogliosamente di dichiararsi erede del vento del nord, della Resistenza.

Era un segnale: il governo Berlusconi cadde per divisioni interne e per l’addio della Lega appena otto mesi dopo. Nel 2001 e nel 2002, di fronte allo smarrimento dei partiti del centrosinistra sconfitto alle prese con il loro congresso, i Ds e la Margherita, con Rifondazione comunista nella parte dell’incomodo, una serie di manifestazioni e di movimenti provarono a coprire il vuoto.

Nel 2002, sono passati giusto venti anni, era il 9 novembre, Firenze ospitò la riunione del Social Forum, un anno dopo la macelleria di Genova, durante il vertice dei grandi.

Nella sala della vecchia stazione di Leopolda, non ancora diventato la Mecca del renzismo, ho visto un tappeto umano di giovani seduti per terra applaudire in fondo al buio un leader naturale che si chiamava Gino Strada.

Un applauso ogni minuto. Rileggo i miei appunti di quella mattina: «L’Italia è uno strano paese in cui chi possiede l’informazione possiede anche il ministero degli Esteri» (in quel momento da dieci mesi il premier Silvio Berlusconi ricopriva ad interim la carica).

«Fuori l’Italia dalla guerra, fuori l’Europa dalla guerra» (eravamo alla vigilia dell'intervento in Iraq del 2003). «Ce la possiamo fare. Siamo ottimisti!».

La giornata fu conclusa da un grande corteo pacifico, grazie anche all’operato del ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, in quel momento in quota Forza Italia ma già democristiano moroteo, un politico di razza educato alla mediazione, non come i prefetti al Viminale, evanescenti o al contrario fin troppo protagonisti.

Sul mio taccuino restò un ultimo appunto: «Non c’è un manifestante vestito uguale all’altro. Non si può abbracciare in un’unica definizione questo popolo».

Le intuizioni giuste

A distanza di venti anni si può dire che le parole d’ordine erano ingenue o poco politiche, ma non mancavano di intuire i meccanismi malati della globalizzazione che in quell’inizio di secolo sembrava ancora il miglior futuro possibile.

Il 2002, con il berlusconismo trionfante al governo, l’opposizione provò a ritrovare l’unità nelle piazze, di diverso genere.

Di estrazione borghese e anti berlusconiane in senso classico quelle dei girotondi riunite attorno alla figura simbolo di Nanni Moretti, indisponibile ad assumere un ruolo di supplenza nella leadership politica.

Giovani e radicali le piazze dei Social Forum, stroncate dalla violenza di Genova e della tortura di stato della scuola Diaz, poi confermata dai processi, con le responsabilità riconosciute nel 2017 dall’allora capo della polizia Franco Gabrielli.

Di lavoratori e iscritti il movimento contro la modifica dell’articolo 18 messo su dalla Cgil guidata da Sergio Cofferati. Il 23 marzo 2002 ero con gli altri cronisti accanto al segretario di Corso d’Italia mentre avanzava da san Giovanni al Circo Massimo.

Tra due ali di folla, ieratico, vestito di scuro, la barba già candida, con una rosa in mano, in processione, metà Berlinguer metà Padre Pio, nel corteo spuntò un prete a benedirlo.

Nicola Piovani suonò La notte di San Lorenzo, l’epica del lavoro e della Resistenza, D’Alema firmava autografi, sul palco altissimo era salito solo il segretario della Cgil, con la sua oratoria rocciosa, «il corpo del povero cadrebbe a pezzi se non fosse legato dal filo dei sogni», la cravatta rossa sventolava come una bandiera.

Senza corpi politici

I cortei, i movimenti, le manifestazioni dell’epoca avevano non uno, ma ben due interlocutori politici (almeno). Il primo era il governo del centrodestra, da contrastare. Il secondo era l’insieme dei partiti del centrosinistra, da richiamare (nell’ordine) a non trattare con Berlusconi, a essere coerente, a ritrovare l’unità. Due interlocutori ben piantati nella società italiana.

Oggi i «corpi di pace», come li ha definiti ieri mattina Avvenire, sono senza punti di riferimento politici. Sono senza un corpo politico, si direbbe.

A sua volta, la società civile in questi anni si è scomposta, frammentata, fa i conti con mille contraddizioni. Ad esempio il sindacato espressione di un’antica sinistra sociale, ma attraversato dai venti che soffiano in direzione opposta, con lavoratori e operai che non sentono fratture tra la tessera della Cgil e il voto nel recente passato alla Lega e oggi a Fratelli d’Italia.

Il mondo cattolico diviso ancora di più tra vertici ecclesiastici o laicali in linea con gli obiettivi indicati da papa Francesco e una base di praticanti attratta dalle parole tradizionaliste della destra meloniana o leghista, dopo la fascinazione per l’antipolitica degli anni scorsi. Terreni di conquista.

Anche una piazza come quella del 5 novembre riflette più una richiesta, una attesa che una soluzione.

Quelle del 2002 erano piazze politiche: al punto che il 14 settembre a concludere la manifestazione dei girotondi nella stessa piazza san Giovanni di due giorni fa salì sul palco l’anziano Vittorio Foa, che della storia del Novecento italiano, del movimento sindacale e della necessità di un rapporto con la sinistra politica era un simbolo vivente.

I leader dei partiti, i parlamentari, per scelta degli organizzatori erano rimasti sotto il palco, ma era una presenza attiva, non erano comparse.

C’era la richiesta di un’altra politica, come la chiamava Stefano Rodotà. Oggi la politica è totalmente da ricostruire, prima di tutto nel suo rapporto con la società, un divorzio da cui entrambi i mondi sono usciti impoveriti.

È la cesura degli ultimi quindici anni da cui è nato il ciclone dell’antipolitica intercettato dal Movimento 5 stelle. Una politica più chiusa, barricata in logiche di palazzo, con il governo (andare al governo, restare al governo) come unico obiettivo dell’agire, anche a dispetto del consenso.

E movimenti radicalizzati, che della politica ignorano il lessico, la cultura, le mediazioni, i compromessi, che non sono parole ignobili come gli apostoli mediatici della setta no-politica fanno ritenere. Una separazione che ha prosciugato e inaridito entrambi i mondi.

Aggravata dalla mancanza di rappresentanza politica per le battaglie di genere, generazionali e ambientaliste. E dai social che danno l’idea di esserci ma che in realtà polverizzano la partecipazione.

La pace è impura, come la politica

Di fronte a una destra che svela in pochi giorni il suo profilo ideologico non si può affidare l’opposizione alle ong che fanno un altro lavoro, salvare vite in mare.

Anche la piazza del 5 novembre si confrontava con la tragedia epocale della guerra in Ucraina, non era per definizione una piazza anti governativa né poteva, tanto meno, essere trasformata nella piazza di una fazione del centrosinistra contro un’altra.

In quella piazza c’era un popolo di sinistra senza una casa, un pezzo importante di mondo cattolico che non ha una interlocuzione politica anche se agisce politicamente perfino su scala internazionale, come fa la Comunità di Sant’Egidio (il meeting sulla pace di Roma di fine ottobre è stato tra gli eventi più rilevanti degli ultimi mesi), moltissimi astenuti del 25 settembre. Un rebus politico da sciogliere.

Non lo può fare, da solo, un Pd chiamato a congresso, paralizzato nel labirinto delle regole e delle autocandidature mentre il paese affronta emergenze reali.

Non lo può fare neppure il Movimento 5 stelle, partito personale di Giuseppe Conte, generato dall’idea di Gianroberto Casaleggio dell’autorappresentanza, il cittadino in solitudine che come atomo singolo prende parte alla intelligenza collettiva.

Anche il risultato alle elezioni del 25 settembre al sud del M5s è frutto non di un meticoloso lavoro sul territorio, ma di una relazione diretta tra l’avvocato e il Popolo, senza altre mediazioni.

La presenza di Conte in piazza è il riconoscimento che quella fase si è conclusa e che la battaglia per l’egemonia nel centrosinistra passa anche da qui, dalla capacità di parlare e rappresentare quei mondi vitali.

Mentre il Pd rischia di ritrovarsi straniero in patria, tra i suoi elettori, in quelle parti di società che ne hanno costituito la linfa. Un pericolo che i suoi dirigenti e gli aspiranti candidati alla segreteria dovrebbero considerare letale.

E che non si risolve rispolverando l’antica identità della sinistra. Perché quelle piazze e quei mondi sono qualcosa di più, e certo di diverso, da molti anni.

I corpi intermedi sono stati l’obiettivo degli ultimi anni, l’effetto è che ci ritroviamo in una politica e in una società senza corpi e senza mediazioni.

Il ritrovarsi in piazza, anche soltanto per un pomeriggio, a strappare ai salotti tv e alle dispute social la questione più rovente che dilania le coscienze, continuare a sostenere con l’invio di armi la resistenza ucraina e al tempo stesso chiedere l’inizio di una trattativa anche con il nemico, è soltanto l’inizio di una ricostruzione possibile.

Il vuoto c’è, i tre oratori conclusivi sul palco, i tre tenori vorrei dire, don Luigi Ciotti, Andrea Riccardi, Maurizio Landini, sono l’espressione di risposte possibili.

«La pace è impura», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron alla Comunità di Sant’Egidio, «ontologicamente impura perché accetta squilibri, scomodità che rendono possibile la convivenza con l’altro da me». Anche la politica lo è.

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