Il 16 gennaio del 2021 si sono svolte, a Roma, le elezioni supplettive per eleggere un deputato al posto del dimissionario Roberto Gualtieri. In ogni elezione di questo genere, fuori da un contesto nazionale, la partecipazione è normalmente molto bassa. Allora però si toccò il fondo: i votanti furono appena l’11,3 per cento. Se questo può essere considerato un caso limite vale ricordare un altro momento topico di bassa partecipazione: le elezioni regionali in Emilia-Romagna il 23 novembre 2014, dopo le dimissioni del presidente Vasco Errani. In un clima pervaso di furore antipolitico per le inchieste sulle “spese pazze” dei consiglieri, inchieste poi risoltesi quasi tutte in un nulla di fatto, la partecipazione precipitò al 37,7 per cento. Una cifra mai toccata prima in una elezione, e ancora più clamorosa in una regione civicamente virtuosa come l’Emilia-Romagna che, da sempre, esibiva la più alta affluenza alle urne, insieme a Veneto e Toscana.

Poi, il brusco calo delle ultime elezioni ha fatto suonare un campanello d’allarme: 63,8 per cento (-9 punti percentuali rispetto al 2018). Mentre fino agli anni Novanta l’Italia veleggiava nel drappello di testa tra le nazioni a più alta partecipazione, ora siamo scesi sotto la media europea. E a passi da gigante, proprio quando in Europa si è registrata nell’ultimo decennio una leggera inversione di tendenza. Perché questo declino?

Cittadini più consapevoli

Un tempo i pochi che non votavano si rintracciavano tra le persone “strutturalmente” lontane dalla politica per mancanza di risorse cognitive o per impedimenti psicofisici di varia natura. L’area dell’astensione, limitata a un 5-10 per cento dell’elettorato, era ritenuta incomprimibile. Ed era una cifra così modesta da non suscitare alcuna preoccupazione. L’aumento generalizzato della disaffezione in Europa negli ultimi decenni viene connesso, secondo alcuni, al crescere delle capacità cognitive dei cittadini: istruzione, competenza, visione critica. In sostanza, l’emergere di cittadini più consapevoli delle dinamiche politiche ha innalzato anche il loro livello critico-valutativo; e quindi non era più automatica la decisione di andare alle urne se non c’era alcun partito che rispondeva alle aspettative.

Questo astensionismo critico e consapevole non colma tutto il bacino del non voto. Interviene anche la caduta di appeal dei partiti politici che sono stati i più potenti motori della partecipazione, soprattutto per le fasce della popolazione prive di risorse cognitive e a rischio di “alienazione” rispetto alle procedure democratiche. Anche la diminuzione dell’intensità del conflitto politico e la convergenza tra le maggiori forze politiche ha favorito l’astensionismo.

Proprio a partire dagli anni Ottanta-Novanta i partiti principali hanno proposto politiche economico-sociali sempre più simili (o, per meglio dire, i partiti di sinistra si sono adeguati alle ricette degli avversari). Una tale indeterminatezza ha allontanato dalle urne: votare l’uno o l’altro non faceva più differenza. Nemmeno il sorgere dei partiti anti establishment, di cui il Movimento 5 stelle non è che un esempio, è servito a riportare al voto coloro che avevano defezionato. Ha limitato di deflusso ma non ha invertito la tendenza. Voto postale, voto elettronico, o addirittura obbligatorietà del voto come in Belgio e in Australia, sono possibili correttivi per riportare alle urne i cittadini. Ma hanno tutti delle controindicazioni, dalla segretezza e indipendenza del voto al forzare un atto che non può che essere volontario.

Questione di legittimazione

Infine, sorge l’interrogativo se nei cittadini non si profili una crescente insofferenza per lo strumento stesso delle elezioni; e quindi se non sia necessario pensare a correttivi di genere diverso, a sperimentare meccanismi di delega al di fuori del circuito elettorale, dall’estrazione a sorte dei rappresentanti a pratiche di democrazia deliberativa attraverso campioni di cittadini, e altro ancora. Al di là di queste riforme futuribili, la crescita delle astensioni pone una questione di legittimazione delle democrazie contemporanee. Un problema che diventa ancora più acuto se consideriamo che coloro che si astengono oggi vanno ben oltre la componente critica e informata emersa negli anni Ottanta. Sono in gran parte persone a basso reddito e bassa istruzione. Persone socialmente “periferiche” che non trovano nessuna voce che li rappresenti.

Persone che si sentono escluse e sospinte ai margini della cittadinanza perché non c’è chi li ascolti. Non conta tanto il numero degli astenuti quanto la loro connotazione sociale, terribilmente squilibrata verso il basso. Le democrazie contemporanee non possono rappresentare soltanto o quasi le classi garantite e privilegiate, ed avere soltanto rappresentanti di questi ceti.

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