Sul Mezzogiorno sembra esercitarsi una sorta di coazione a ripetere da parte dei governi. Si fa strada la spinta irrefrenabile a ricorrere ai facili e rapidi strumenti di agevolazione fiscale e contributiva a favore di imprese che operano già o che si vogliono localizzare nel sud, a scapito di investimenti pubblici, più difficili e lenti da realizzare rispetto ai tempi sempre più brevi della politica. Da ultimo arriva anche il governo Meloni.  

Il ministro per il Sud Raffaele Fitto ha appena proposto a Bruxelles l’estensione a tutto il Mezzogiorno delle “zone economiche speciali” e la trasformazione di Decontribuzione sud in misura strutturale. Nonostante i toni trionfalistici da parte governativa, sembra abbia ottenuto per ora una risposta cauta dalla Commissaria Vestager, data la tradizionale e giustificata preoccupazione che le risorse europee vadano a sostegno di investimenti. Fitto propone peraltro di legare tali misure anche all’uso delle risorse del Pnrr e dei fondi strutturali, per affrontare le difficoltà di spesa di questi programmi. È una buona idea?

Le criticità

In entrambi i casi (estensione delle zone economiche speciali a tutto il Mezzogiorno e decontribuzione sud) si tratta di interventi a favore delle imprese, soprattutto in termini di consistenti agevolazioni fiscali e contributive. In realtà misure di questo tipo sono state utilizzate ampiamente per decenni nel Mezzogiorno (e poi contrastate dalla Ue) ma con scarsa efficacia.

La ragione di fondo è che il freno agli investimenti viene soprattutto dalle forti carenze del contesto in termini di infrastrutture materiali (comunicazioni) e immateriali (digitalizzazione) e di “beni collettivi per la competitività”, ovvero istruzione, formazione e capitale umano, servizi sanitari e sociali adeguati, ma anche non arbitrarietà e efficienza della pubblica amministrazione e rapidità del contenzioso giudiziario.  Per non parlare delle conseguenze di corruzione e criminalità.

Attenzione: è proprio su queste criticità, che richiedono in gran parte investimenti pubblici, che dovrebbe invece concentrarsi il Pnrr. Ma di fronte alle difficoltà evidenti della governance del piano, e ai rischi di ritardi e perdita delle risorse europee, sembra si voglia invece seguire la vecchia strada delle agevolazioni fiscali e contributive più facili da spendere. Con il consenso entusiasta degli ambienti imprenditoriali – specie meridionali – ma con il rischio palese di perdere un’altra occasione per il sud e per il paese.

Infatti, cercare di “compensare” (come è stato fatto in passato – le gravi carenze del contesto con agevolazioni fiscali e incentivi non porta molto lontano. Non sarà sufficiente per attirare nella misura necessaria gli investimenti dall’esterno, che si muovono sempre più oggi in base a una valutazione complessiva dei vantaggi dell’ambiente economico e sociale nel quale localizzarsi.

Effetti scarsi 

Da questo punto di vista, l’estensione a tutto il sud del regime delle Zes rischia di avere effetti deludenti perché queste zone a regimi speciali possono essere tanto più efficaci quanto più favoriscono la formazione di economie esterne legate alle specificità delle aree interessate. D’altre parte, per le aziende più marginali – molto presenti al sud – le agevolazioni fiscali e contributive possono aiutare la sopravvivenza a breve, ma diventano così una misura assistenziale e non di sostegno all’innovazione.

Per questa via il Mezzogiorno dovrà dunque attendere ancora e i proclami, come quello della presidente Meloni, che annunciano finalmente uno “sviluppo non assistenziale” per il sud resteranno poco credibili.

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