«I politici europei non sono divisi semplicemente tra destra e sinistra, e tra pro e anti-Europa, ma tra cinque tribù originate dalle crisi, i cui membri sono stati traumatizzati da eventi chiave».

È quanto scrivono Mark Leonard e Ivan Krastev nel rapporto dell'European Council on foreign relations A crisis of one’s own: The politics of trauma in Europe’s election year. I due autori sono tra i politologi europei più interessanti degli ultimi anni.

L'inglese Leonard è il teorico dell'era dell'unpeace, della non-pace, il bulgaro Krastev ha raccontato nei suoi libri la disgregazione dell'Europa e quello che ci sarà dopo.

Ci muoviamo in questo “after Europe”, confuso, caotico, in cui sembrano superate le distinzioni classiche del Novecento, ma anche quelle degli anni Dieci del nuovo secolo che vedevano populisti e partiti dell'establishment confrontarsi sull'euro e sull'Europa come discriminante.

Nella disgregazione provocata dai traumi di questi anni, la pandemia, le guerre, la paura degli effetti del cambiamento climatico, ma anche delle conseguenze dell'intelligenza artificiale sul mondo del lavoro, si sono riscritte le identità e le appartenenze politiche, e di questo rimescolamento l'Italia è ancora una volta un laboratorio privilegiato.

Le preoccupazioni italiane sono diverse da quelle degli altri paesi europei, in cui la paura per il clima stravolto supera tutto. In Italia spaventa la crisi economica, seguita dalla crisi climatica e dal Covid. I migranti arrivano molto dopo, come la guerra in Ucraina.

Se si calano le cinque tribù in questo inizio scomposto di campagna elettorale, si leggono con maggiore chiarezza le mosse dei principali protagonisti. Il partito più fuori asse è la Lega di Matteo Salvini.

La sua tribù si è dispersa e il Capitano è alla ricerca di una nuova missione. Sostituì la secessione e l'indipendenza della Padania con il sovranismo nazionale in un pomeriggio di febbraio in piazza del Popolo, era il 2015, la Lega sbarcava a Roma e sul palco c'era una comprimaria, Giorgia Meloni, pigiata tra i padri separati, i poliziotti arrabbiati, le falangi di CasaPound.

Oggi la lotta ai migranti non basta a catturare il consenso, a Salvini resta la crociata contro i 30 all'ora del comune di Bologna, pochino. Anche il Movimento 5 stelle è alla ricerca della sua tribù: ben più della esausta lotta alla casta della politica in cui i post-grillini e i neo-contiani hanno dimostrato di muoversi con agio, è stato il reddito di cittadinanza a intercettare quella paura di crisi economica di cui parlano Leonard e Kristev, e che ha un nome antico e tremendo, povertà.

Si spiega così il 16 per cento raccolto da M5s in gran parte nelle regioni meridionali, mentre non è mai decollata l'attenzione all'ambiente, che pure erano le cinque stelle degli esordi e la condizione posta da Beppe Grillo per partecipare all'operazione Draghi (la nascita del nuovo ministero per la transizione ecologica).

I partiti centristi, da Forza Italia a Italia viva a Azione, scontano o la scomparsa dell'indiscusso capo tribù (Silvio Berlusconi), di cui sarà celebrato in questi giorni il trentennale della discesa in campo, o la presenza di capi- tribù fin troppo ingombranti, Renzi e Calenda, capi senza tribù, se non in qualche agguerrita frangia social.

Infine, ci sono i due principali partiti, con le leader protagoniste del futuribile scontro televisivo e elettorale. Per Giorgia Meloni la partita è far coincidere la tribù politica di origine, quella formata negli anni ad Atreju, con la tribù più larga del nuovo elettorato, molto più numeroso ma non ancora consolidato.

A questa tribù inquieta, preoccupata dalle policrisi, Meloni sembra voler consegnare un prodotto impalpabile: il suo ruolo, l'idea di un governo forte, la stabilità.

Quando ne parlavano Arnaldo Forlani o Giulio Andreotti i missini ululavano, era forse considerata la virtù dei mediocri e dei parrucconi, oggi la esaltano gli opinionisti ex pannelliani, gli ex esuli in patria, gli ex arditi da combattimento, tutti convertiti al nuovo imperativo, durare, purché non si trasformi in tirare a campare, perché il passo è breve.

Per Elly Schlein il compito è più difficile. Deve ricostruire una tribù perché il Pd, di fatto, si è sciolto. Più dello scollamento con le classi dirigenti, testimoniato anche dal convegno dei deputati di Gubbio, la segretaria del Pd teme la separazione da un pezzo di elettorato e di società, perso negli anni.

Il salario minimo, la sanità pubblica, i congedi parentali sono guardati dall'alto in basso dai professionisti della politica, ma inseriscono il Pd nella politica del trauma nell'anno delle elezioni europee (e americane), soprattutto le fasce di elettorato giovanile.

Sullo strumento per dare rappresentanza politica a queste tribù, il partito, e sul tempo, poco, è più che lecito lo scetticismo. Di certo, una volta imboccata questa strada, non si può restare a metà, serve un di più di radicalità, nei contenuti e nei toni. Il discorso di Gubbio per Elly Schlein è solo l'inizio.

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