Ha ragione Piero Ignazi a parlare di animosità e di astio. Effettivamente fa impressione l’assedio, interno ed esterno al Pd, della neo segretaria Pd. E tuttavia, a ben vedere, in parte si spiega. I media governativi, talvolta con espressioni persino insolenti, fanno il loro mestiere.

Quelli sedicenti indipendenti ma tradizionalmente allineati al potere di turno, di sicuro non tifano per un Pd che si discosti dal profilo maturato nel tempo quale partito dell’establishment, asse portante dei più diversi governi e segnatamente di quelli tecnici o del presidente. Del resto, gli uni e gli altri avevano pronosticato e tifato per Bonaccini. Per inciso, meriterebbe chiedersi perché.

E comunque non se ne fanno una ragione. Dunque, enfatizzano a dismisura l’abbandono del partito da parte di quale che sia esponente Pd. Anche i meno significativi. Forse è il caso di esaminare i casi più reclamizzati. Al netto di una lettura maliziosa circa loro calcoli personali, merita un cenno alle specifiche estrazioni politico-culturali di essi.

Beppe Fioroni, nella prima Repubblica, fu andreottiano. Una cultura politica non esattamente riconducibile al genuino cattolicesimo democratico.

Con arguzia, Michele Serra ha osservato che, anziché chiedersi perché se ne sia andato, sarebbe più appropriato semmai l’interrogativo di come mai egli nel Pd ci sia entrato. Andrea Marcucci, renzianissimo, in gioventù fu collaboratore di Renato Altissimo. Alessio D’Amato, dimessosi con clamore dall’assemblea Pd (quasi mille i suoi membri) con una motivazione tiratissima, non si è capito se abbia lasciato anche il partito. Lui pure con una biografia politica che risale alla prima Repubblica: fu vicino ad Armando Cossutta.

Niente di riprovevole, sia chiaro, ma - si dovrebbe convenire - casi che, osservati da vicino, circoscrivono la dimensione del fenomeno. Più significativo il caso di Carlo Cottarelli, personalità autorevole. Il quale tuttavia, nel lasciare il Pd (e il parlamento, dando così prova di singolare dignità e correttezza), ne ha fatto soprattutto una questione vocazionale, osservando altresì che la curvatura a sinistra del Pd impressa da Schlein era naturale e quasi obbligata.

Certo, ad accreditare l’immagine di una divisione concorrono le voci interne. Tuttavia anch’esse prevedibili se si considera il mandato assegnato alla Schlein dal popolo delle primarie. Un mandato ispirato a una domanda di marcata discontinuità e apertura, in un partito da più parti considerato agonizzante. In quel mandato stanno scritti due obiettivi strategici: a) conferire finalmente al Pd una identità politica chiara e riconoscibile (e non più un indefinito “partito pigliatutti”); b) contrastare il male di un partito ostaggio della sua “costituzione materiale” ovvero del patto di sindacato tra i capi delle filiere interne.

Come sorprendersi se essi resistono? In questi giorni, si fa più leggibile un'altra anomalia. Alludo al vociante dissenso di sindaci e amministratori locali in tema di abuso d’ufficio. Anch’esso molto enfatizzato dai media. Si può comprendere la loro preoccupazione (la psicosi della “firma”), ma sorprende che essi non avvertano la portata politica decisamente più grande della partita inscritta nel complessivo pacchetto Nordio sulla giustizia, a sua volta da leggere nel quadro di un abbassamento dei presidi di legalità e del depotenziamento degli istituti terzi di garanzia. Di più: nell’orizzonte di una torsione in senso presidenzialistico della Costituzione.

Eppure essi dovrebbero essere non solo buoni amministratori, ma dirigenti di partito con sensibilità politica. Spesso hanno rivendicato un loro protagonismo nazionale. Qualcuno rammenterà che il “partito dei sindaci” del Pd, non a caso, fu l’ala marciante della candidatura di Bonaccini. Quella loro aspirazione/ambizione prescriverebbe una visione e una responsabilità politica generale.

Meriterebbe un’ulteriore segnalazione. È argomento tabù. Non vi indugio per non essere equivocato. Mi limito a registrare un fatto singolare: le voci più critiche da dentro il Pd sono femminili. Non azzardo interpretazioni. Nei non pochi sedici anni di vita del Pd, se si eccettua il caso di Rosy Bindi, mai una donna ha corso per la leadership e neppure, quantomeno, è stata in proprio alla testa di una corrente, ove si condensava il potere reale dentro il partito.

Ma sempre al seguito di capi maschi. Magari quelli che oggi si sentono insidiati dal nuovo corso. Curioso comunque un tale sovrappiù di criticismo femminile contro la prima e unica leader donna.

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