In definitiva, ci siamo fatti mancare solo un romanziere, un poeta, non importa, uno così che salisse su un biposto con degli occhialoni da aviatore calati sul naso, per trasvolare fino a Vienna e lanciare volantini dal cielo.

Tutto il resto c’è stato, ce n’è e ce ne sarà. Nel giro di una settimana, come in un’iperbole di Stefano Benni, tutta la finzione e la parodia possibile sui nostri pensatori di destra s'è fatta carne, cotanta audacia è venuta a visitarci.

La sorpresa vera in questa storia è casomai lo stupore, scoprirsi ancora a pensare come sia possibile che Vittorio Sgarbi vada al Maxxi e faccia quel che ha fatto, che Filippo Facci scriva quel che ha scritto, che Ignazio La Russa dica quel che ha detto.

La sorpresa è nello stupore di quanti immaginavano che prima o poi la realtà si sarebbe stancata di superare la fantasia, le imitazioni di Fiorello, e invece guarda, guarda come ciascuno non smette mai di citare sé stesso e il personaggio che ha faticosamente costruito, chi nei mari del grottesco, chi nelle tempeste del dramma. Sarà che in fondo viviamo l’età dell’autofiction.

Così, dentro la stessa stanza dei manager Rai riuniti per decidere le sorti della striscia d’informazione di Filippo Facci, le stesse persone qualche giorno fa avevano deciso di affidargliela. Con una certa consapevolezza. Gliel’avevano assegnata, si legge nel pieghevole distribuito alla presentazione dei palinsesti, come «un appuntamento quotidiano per affrontare in modo dissacrante e ironico i punti salienti del momento.

Una cavalcata di pochi minuti per offrire spunti di lettura, anche eretici». Dove dissacrante, ironico ed eretico, stavano come una mano di vernice sulla collezione di impresentabili uscite pubbliche firmate nel tempo da Facci, soprattutto su sesso, droghe e ultimi. Ma sì, prendiamolo, devono essersi detti nella Rai a caccia di interpreti del pensiero d’area, casomai possiamo sempre dire che era futurismo.

Il servizio pubblico

Del resto, non era forse Lorenzo da Ponte, non era forse una citazione da L’aria di Leporello, quell’indugio elegante del sottosegretario Vittorio Sgarbi sul contatore all’uccello? È una parola che adora pronunciare, qualche anno fa non si tenne neanche in televisione, era ospite da Barbara D’Urso. Le teche sono piene di intemperanze di Sgarbi, dal Costanzo Show in avanti.

Anche qui. Se lo inviti al Maxxi e lo affianchi a Morgan, la meraviglia sulla piega presa dalla serata non te la puoi permettere. Solo che un conto è fare l’ospite sboccato da critico d’arte, un altro è stare dentro l’abito di un’istituzione, discorso che vale pure per La Russa, per la retorica del padre che difende il figlio. 

Non c’è bisogno di scomodare Protagora e Aristotele, la distinzione tra il vero e il falso, tra il bene e il male, discutere del rapporto tra un giudizio individuale e una morale. Qui la faccenda è più semplice, sta nella dimensione pubblica dei protagonisti. Avranno di certo ragione gli amici di Filippo Facci nella buona società, accorsi a descriverlo come una persona dolce e inquieta. Ma la faccenda è trascurabile.

Non è importante che Facci sia davvero così quand’è con i colleghi in redazione o con gli amici su un campo di calcetto. Se fai un mestiere in cui devi apparire, forse conterà di più quello che dici in pubblico, soprattutto se ti chiamano a condurre un programma in un’azienda dove non si sapeva per chi votasse Ugo Zatterin né per chi facesse il tifo Enrico Ameri.

Ora che siamo assuefatti da decenni di lottizzazione e spoils system all’idea che un governo comandi e indirizzi, disponga e scelga editorialisti o direttori in base alla militanza politica, vorremmo almeno trovare un terreno condiviso sulle maniere, sulle carte deontologiche che indicano ai giornalisti di attenersi a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole, nel rispetto delle differenze, figuriamoci nei casi di violenza, molestie e discriminazioni.

È il testo unico dei doveri, non in Rai, nella professione, un mondo dove dovrebbe essere superfluo ricordare che la libertà di espressione non è esercizio di pirateria, ma esercizio di responsabilità. 

Il vizio d’origine

Così si finisce per tornare al vizio d’origine della destra italiana, più impresentabile di altre destre in Europa occidentale per carenza di interpreti. La destra Calimero che non nasconde il suo complesso d’inferiorità quando vorrebbe farsi una sua chiesa culturale e si scopre senza papi, senza cardinali, senza neppure i chierichetti.

Una destra che vede il suo ministro della Cultura in imbarazzo al premio Strega, quando confessa di aver votato senza aver letto i libri, lasciandoci tutti col dubbio sul perché al premio Strega debba poi votare pure un ministro.

Deve trattarsi di una specie di maledizione, l’eredità di un antico pregiudizio espresso contro gli intellettuali, al suono del motto “chi pensa tradisce, chi crede obbedisce”. Ogni tanto la destra italiana sente il bisogno di fare campagna acquisti nei pantheon altrui, una volta arruola Dante, una volta perfino Piero Gobetti, come fece Il Secolo d’Italia nel 97, nel pieno di un passaggio epocale testimoniato da una discussione intorno a un saggio di Furio Jesi (Cultura di destra) su quelle che chiamò le idee senza parole.

Il conservatorismo italiano ha trovato interpreti in Giuseppe Prezzolini e Leo Longanesi, in Giovanni Guareschi e nelle vignette di Jacovitti. Il poema che meglio ha intuito le macerie del Novecento, che meglio ha descritto una civiltà sopportabile solo per frammenti, è stato La Terra Desolata di T.S.Eliot, del tutto dentro un immaginario di destra.

Quanto al nostro cinema, nel cuore di quel concetto misterioso chiamato egemonia culturale della sinistra, è fiorito un Federico Fellini, che comunista non era. Un pensiero di destra esiste.

I voti pure, esuli e nomadi nei decenni tra una fiamma, uno scudo crociato, un tycoon e un carroccio. Mancano i pensatori, manca qualcuno che sappia andare oltre questa parodia del maschio italiano, dalla quale è assente ancora - che so - un Barbareschi che marcia su Fiume. Ma c’è sempre tempo, che ne possiamo sapere.

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